domenica 3 marzo 2013

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”




Di Felice Monteferrante

L’art.9 della nostra Costituzione recita testualmente: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

I nostri Padri costituenti, pur dovendo ricostruire un PAESE dalle macerie della guerra, furono lungimiranti nell’inserire, nei principi fondamentali della Carta Costituzionale, la tutela del paesaggio.
A ben vedere, però all’art.9 manca un concetto importante, quello di ambiente inteso come habitat per l’essere umano definito nella sua accezione più ampia e declinata negli ambiti più disparati, da quella abitativo, a quella lavorativo, affettivo, religioso e culturale.

Cultura ed ambiente e cultura per l’ambiente sono ancora oggi assenti nell’agenda politica: a questo valgano le parole di Andrea Carandini (neo presidente del F.A.I. e già presidente del “Consiglio Superiore dei Beni Culturali”) che ha recentemente dichiarato: "Alla classe politica dico di affittarsi un nuovo cervello, perché in questo momento c'é bisogno di un cambio di mentalità……. alla politica chiediamo protezione del territorio ed una legge quadro che limiti le

zone costruibili nelle diverse regioni”.
Già l’ex ministro Altero Matteoli chiedeva una modifica dell’art.9 inserendo il tema dell’ambiente come bene da tutelare per mettere la nostra Carta in sintonia con quella europea.
Ora, per capire meglio tale lacuna, occorre rivisitare, anche se solo per sommi capi, l’iter che ha portato alla formulazione dell’art.9 ma soprattutto al dibattito culturale che, precedentemente si era sviluppato in Europa, sul concetto di Ambiente e Natura.     
Sono generalmente indicati come i ''Padri" dell'art. 9 Concetto Marchesi, e in subordine Aldo Moro. Da una lettura estesa degli atti risulta che questo è sostanzialmente corretto.
Marchesi volle l'articolo sulla protezione dei monumenti (storici, artistici, naturali) come affermazione di principio, Moro era più interessato ad altri aspetti della discussione ma collaborò alla sua stesura comprendendone l'importanza, a differenza di altri della sua stessa parte politica.
L'affermazione di principio fin dall'inizio si colora di una tinta antiregionalistica (parzialmente  ridimensionata con la modifica del Titolo V° della Costituzione) e difensiva delle prerogative di un'amministrazione centrale: sono le prime parole agli atti con cui Marchesi ne giustifica l'inserimento. In esse può esserci anche un po' di tattica per acquisire appoggi a una posizione generalmente poco compresa, ma è certo che per Marchesi la difesa del modello italiano di amministrazione dei beni culturali non prevedeva grande spazio per le autonomie: la cultura è la manifestazione più alta della vita sociale, e perciò deve essere regolata e amministrata al livello più alto delle istituzioni, e difesa da interessi piccini.
E' certo anche che Marchesi conoscesse come pochi altri le qualità del “modello italiano” di amministrazione dei beni culturali, che con le leggi del 1939 e del 1942, a quella data non ancora messe realmente alla prova a causa della guerra, si proiettava al di là del settore delle "cose d'arte", sia pure in un modo che continuava a isolare l'oggetto dal contesto: prima ci sono i monumenti, poi c'è tutto il resto. Marchesi non parla mai di paesaggio, al più difende il concetto di monumenti naturali, espressione particolare di una monumentalità come manifestazione emergente della produzione di cultura, che non riguarda solo le opere di architettura: concetto che traspare anche dalle parole con cui Togliatti appoggia Marchesi.
Una concezione più vicina a quella a che oggi ci è familiare cominciò ad avere un peso solo quando, molti decenni più tardi, si cominciò a parlare di governo del territorio. Nella discussione alla Costituente ce n'è una timida traccia in un paio di emendamenti (bocciati) di Codignola e Lami Starnuti nella discussione sulle autonomie, in cui la materia urbanistica, destinata alle Regioni non senza qualche resistenza, viene proposta come urbanistica e tutela del paesaggio.
Eppure, il gruppo autonomista lasciò nell'articolo 9 uno dei contributi più importanti, che negli anni recenti ha mostrato tutto il suo potenziale: la Repubblica, e non semplicemente lo Stato, tutela il paesaggio. Nella discussione in Assemblea questa proposta di sostituzione si ripresentò in altri casi, ma alla luce del dibattito si può dire che trovò qui la sua espressione più significativa, e proprio all'ultimo momento, quando il Comitato di Coordinamento aveva di fronte la discrasia uscita dal voto dell'Assemblea: la Repubblica tutela i monumenti, compete allo Stato la tutela del paesaggio.
Il nostro art.9. però, è anche il risultato di una riflessione che, come già detto tra fine “800  ed inizio “900 coinvolse molti intellettuali europei su, quale debba essere il ruolo del paesaggio nelle moderne democrazie.
Tra questi va annoverato Benedetto Croce: a chi gli chiedeva “perché è necessario tutelare il paesaggio? Egli rispondeva perché un «altissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato: poiché il paesaggio «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Si nasconde qui una citazione della celebre formula secondo cui il paesaggio è «il volto amato della Patria».
Questa formula, che in quegli anni ebbe in Italia quasi il valore di uno slogan, veniva spesso attribuita a Ruskin, e certo corrisponde alla sostanza del suo pensiero; ma è impossibile rintracciarla con queste parole nei suoi scritti, ed è tratta piuttosto da una volgarizzazione del suo pensiero, Ruskin et
la religion de la beauté di Robert de la Sizeranne (1897): Croce non la attribuisce esplicitamente a Ruskin, come molti avevano fatto; ma subito dopo cita proprio Ruskin come il vero iniziatore del movimento europeo in difesa della natura e del paesaggio, a partire dal 1862 quando egli «sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine».
Il riferimento a un quadro internazionale spazia subito in modo più esplicito all’Heimatschutz tedesco e ad altre esperienze europee (dalla Svizzera all’Austria e al Belgio ), con una citazione
speciale per la legge francese del 1906.: tornano, insistiti, la connessione fra paesaggi e «sviluppo dell’anima nazionale», e il riferimento alle «associazioni potenti sorte per mettere in valore le bellezze naturali, e imporre, premendo sull’opinione pubblica, la necessità di sanzioni positive contro le ingiustificate e spesso inutili manomissioni del paesaggio nazionale».
Perciò è opportuno l’obbligo ai proprietari di chiedere il permesso delle Soprintendenze per lavori sia in immobili storici che in luoghi caratterizzati da «bellezze naturali e panoramiche»; perciò è necessario notificare immobili e paesaggi di «importante interesse», sottoponendoli a speciali limitazioni del diritto di proprietà, onde «contemperare le ragioni superiori della bellezza coi legittimi diritti dei privati» «I vari interessi contrastanti» devono essere «composti con spirito di conciliazione», avendo a mente «ciò che è in cima ai pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l’Italia.
Nella relazione di Croce è la salvaguardia del paesaggio viene fondata sulla sua affinità con il patrimonio d’arte nel formare l’identità nazionale, e legittimata mediante paralleli coi più civili Paesi d’Europa; ma è degno di nota che Croce si preoccupasse, inoltre, di cercare precedenti nella legislazione degli antichi Stati italiani, trovandoli infatti nei «Rescritti Borbonici del 19 luglio 1841 e 17 gennaio 1842 e 31 maggio 1843», che «vietavano di alzare fabbriche, le quali togliessero amenità o veduta lungo la via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte, di Capodimonte»: in questi casi come nella sua proposta di legge, le limitazioni alla proprietà privata in null’altro consistono che in «una servitù per pubblica utilità», poiché sarebbe egualmente inammissibile «deturpare un monumento o oltraggiare una bella scena paesistica, destinati entrambi al godimento di tutti». Croce non ricorda invece, e forse non conosce, l’ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 1745 (sulle antichità di Taormina e i boschi alle pendici dell’Etna) che abbiamo menzionato all’inizio.
Per una superficiale petitio principii, si è detto qualche volta che la legge Croce dovesse avere un prevalente carattere estetico. Non è così. Non sono solo le «bellezze naturali» ad essere «soggette a speciale protezione», bensì più ampie categorie di «cose immobili», per esempio quelle che abbiano «particolare relazione con la storia civile e letteraria».
In quella sottolineatura del paesaggio come veduta, cioè del potere dello sguardo e della storia che
vien coniando uno dopo l’altro i paesaggi mediante gli interventi dell’uomo sulla natura c’era, è vero, una radice culturale tipica del primo Novecento, infatti, nello stesso anno (1912) Croce, Georg Simmel e Charles Lalo fecero riflessioni assai simili sulle bellezze “di natura” individuate attraverso il filtro dell’arte.
Nel contesto della legge Croce, tuttavia il riferimento specifico alle vedute e ai panorami va inteso sotto il profilo non estetico ma giuridico.
Parlare di “vedute”, di “bellezze naturali”, di “panorami” aveva in quel contesto il doppio vantaggio di assimilare il paesaggio a un quadro (cioè a una categoria di beni già tutelata dalla legge del 1909) e di legare la nuova legge alla protezione delle vedute (aspectus, prospectus) radicata nel diritto romano, e con qualche precedente nei Rescritti del Re di Napoli.
A Croce spetta anche il merito di aver richiamato con forza non solo il precedente della legge francese del 1906 a tutti noto, ma la ricca tradizione germanica, che tra Otto e primo Novecento aveva raggiunto un punto assai alto: da Alexander von Humboldt, che nel 1859 parla di “monumenti della Natura” alle pagine di Alois Riegl sul «culto moderno dei monumenti » (1903)
si affermò allora negli Stati tedeschi un’idea della tutela imperniata sulla parola-chiave Denkmal
 (“monumento”), coi connessi valori di permanenza e di memoria, e si cominciò a parlare di Kunst-, Geschichts- e Naturdenkmäler (“monumenti dell’arte, della storia e della natura”). Nacquero in quel contesto i movimenti di Heimatschutz (“protezione della Heimat”), che ispirarono la prima legge tedesca a protezione dei monumenti dell’arte e della natura, nel Granducato di Assia-Darmstadt (1902), e poco dopo la lega per la protezione della Heimat (1904) e l’ufficio per la protezione dei monumenti naturali della Prussia (1906). Infine, secondo l’art. 150 della Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) «i monumenti dell’arte, della storia e della natura, ed il paesaggio, sono soggetti alla protezione e alla tutela dello Stato».
La versione finale dell’art. 9 è molto diversa da questa, ma ne ha conservato intatto lo spirito.
La tutela del paesaggio ha dunque, è vero, profonde radici italiane, ma in essa batte forte anche un cuore europeo.
 A Benedetto Croce dobbiamo anche questo, anche se egli non tiene nel dovuto conto il concetto di Natura, soprattutto l’abitare dell’uomo in essa che, per Heidegger ( nella famosa disputa sull’abitare e costruire con Ortega-Gasset ) è: “ soggiornare presso cose e luoghi. "Il rapporto dell'uomo ai luoghi, e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell'abitare. La relazione di uomo e spazio non è null'altro che l'abitare pensato nella sua essenza" cioè "Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire"
Possono sembrare riflessioni poco pertinenti per un Paese moderno ed industriale come l’Italia, dove l’edilizia è uno dei settori più importanti per la nostra crescita economica ma sono anche sotto gli occhi di tutti lo scempio che si è compiuto sul nostro territorio negli ultimi decenni.
Legambiente stima che ogni anno si consumano 500 km2 (415 metri quadri per abitante) di territorio come se ogni quattro mesi spuntasse una città uguale all’area urbanizzata del comune di Milano: eppure nel 2009, in testa alle città con il maggior numero di case vuote c’era Roma con 245.142 abitazioni, seguita da Cosenza (165.398), Palermo (149.894), Torino (144.398) e Catania (109.573). Nello stesso periodo, il maggior numero di sfratti è stato eseguito a Roma (8.729), a Firenze (2.895), a Napoli (2.722), a Milano (2.574) e a Torino (2.296).
Il caso di Roma (in cima a entrambe le classifiche) è emblematico e merita di essere analizzato. Sia perché, negli ultimi anni, il territorio romano ha visto una fortissima crescita edilizia, sia perché il comune di Roma è il più grande in Italia in termini di superficie e di popolazione. Uno studio originale e inedito sulle trasformazioni dei suoli a usi urbani nei comuni di Roma e Fiumicino tra il 1993 e il 2008 rivela come, in 15 anni, questi siano aumentati del 12% a Roma (con 4.800 ettari trasformati, quasi tre volte il tessuto “storico” della città compreso entro le Mura Aureliane) e del 10% a Fiumicino (con 400 ettari).
La trasformazione ha interessato in particolare suoli agricoli (Roma è il più grande comune agricolo d’Europa) ma anche importanti porzioni di aree naturali. Sono scomparsi 4.384 ettari di aree agricole, il 13% del totale e 416 di bosco e vegetazione riparia. Ora, in base ai piani regolatori vigenti nei comuni di Roma e Fiumicino e ai programmi in atto, è prevedibile un ulteriore consumo di 9.700 ettari, prevalentemente agricoli, ossia più di quanto sia stato trasformato tra il 1993 e il 2008.
Altri Paesi, simili per importanza al nostro, stanno seguendo strade diverse: la Germania ha ridotto il consumo di suolo da 130 a 30 ettari giornalieri e la Gran Bretagna protegge con le sue green belt, le cinture verdi, un milione e mezzo di ettari, il 12 per cento dell’ intero paese e consente nuove edificazioni a patto di riutilizzare prevalentemente aree già urbanizzate e dismesse. In Francia si evita la dispersione urbana con leggi che impongono di costruire esclusivamente in continuità con le zone urbanizzate».
Qualcosa però pare stia cambiando anche da noi: infatti, la settimana scorsa hanno protestato davanti alla Borsa di Milano (con lo slogan “il giorno della collera”) i rappresentanti dell’A.N.C.E. (ass.naz. costruttori edili): essi chiedono che lo Stato paghi, almeno parte dei lavori eseguiti, entro il limite dei 30 giorni come voluto dall’U.E. ma soprattutto che si sblocchi il patto di stabilità, non per costruire nuove abitazioni, così come ha ricordato il suo presidente Buzzetti, ma per riqualificare il patrimonio esistente, sia abitativo che paesaggistico e per mettere sicurezza il territorio dal dissesto idrogeologico
Una speranza in più se il cambio di paradigma è voluto dagli stessi costruttori.

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