Di Felice Monteferrante
L’art.9 della nostra Costituzione recita
testualmente: ”La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e
la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico
e artistico della Nazione.”
I nostri Padri costituenti, pur dovendo ricostruire
un PAESE dalle macerie della guerra, furono lungimiranti nell’inserire, nei
principi fondamentali della Carta Costituzionale, la tutela del paesaggio.
A ben vedere, però all’art.9 manca un concetto
importante, quello di ambiente inteso come habitat
per l’essere umano definito nella
sua accezione più ampia e declinata negli ambiti più disparati, da quella
abitativo, a quella lavorativo, affettivo, religioso e culturale.
Cultura
ed ambiente e cultura per l’ambiente sono ancora oggi assenti
nell’agenda politica: a questo valgano le parole di Andrea Carandini (neo
presidente del F.A.I. e già presidente del “Consiglio Superiore dei Beni
Culturali”) che ha recentemente dichiarato: "Alla classe politica dico
di affittarsi un nuovo cervello, perché in questo momento c'é bisogno di un
cambio di mentalità……. alla
politica chiediamo protezione del territorio ed una legge quadro che limiti le
zone
costruibili nelle diverse regioni”.
Già l’ex
ministro Altero Matteoli chiedeva una modifica dell’art.9 inserendo il tema
dell’ambiente come bene da tutelare per mettere la nostra Carta in sintonia con
quella europea.
Ora, per
capire meglio tale lacuna, occorre rivisitare, anche se solo per sommi capi,
l’iter che ha portato alla formulazione dell’art.9 ma soprattutto al dibattito
culturale che, precedentemente si era sviluppato in Europa, sul concetto di
Ambiente e Natura.
Sono generalmente indicati come i ''Padri"
dell'art. 9 Concetto Marchesi, e in subordine Aldo Moro. Da una lettura estesa
degli atti risulta che questo è sostanzialmente corretto.
Marchesi volle l'articolo sulla protezione dei
monumenti (storici, artistici, naturali) come affermazione di principio, Moro
era più interessato ad altri aspetti della discussione ma collaborò alla sua
stesura comprendendone l'importanza, a differenza di altri della sua stessa
parte politica.
L'affermazione di principio fin dall'inizio si
colora di una tinta antiregionalistica
(parzialmente ridimensionata con la
modifica del Titolo V° della Costituzione) e difensiva delle prerogative di
un'amministrazione centrale: sono le prime parole agli atti con cui Marchesi ne
giustifica l'inserimento. In esse può esserci anche un po' di tattica per
acquisire appoggi a una posizione generalmente poco compresa, ma è certo che
per Marchesi la difesa del modello italiano di amministrazione dei beni
culturali non prevedeva grande spazio per le autonomie: la cultura è la
manifestazione più alta della vita sociale, e perciò deve essere regolata e
amministrata al livello più alto delle istituzioni, e difesa da interessi
piccini.
E' certo anche che Marchesi conoscesse come pochi
altri le qualità del “modello italiano” di amministrazione dei beni culturali,
che con le leggi del 1939 e del 1942,
a quella data non ancora messe realmente alla prova a
causa della guerra, si proiettava al di là del settore delle "cose
d'arte", sia pure in un modo che continuava a isolare l'oggetto dal
contesto: prima ci sono i monumenti, poi c'è tutto il resto. Marchesi non parla
mai di paesaggio, al più difende il concetto di monumenti
naturali, espressione particolare di una monumentalità
come manifestazione emergente della produzione di cultura, che non riguarda
solo le opere di architettura: concetto che traspare anche dalle parole con cui
Togliatti appoggia Marchesi.
Una concezione più vicina a quella a che oggi ci
è familiare cominciò ad avere un peso solo quando, molti decenni più tardi, si
cominciò a parlare di governo del territorio.
Nella discussione alla Costituente ce n'è una timida traccia in un paio di emendamenti
(bocciati) di Codignola e Lami Starnuti nella discussione sulle autonomie, in
cui la materia urbanistica,
destinata alle Regioni non senza qualche resistenza, viene proposta come urbanistica
e tutela del paesaggio.
Eppure, il gruppo autonomista
lasciò nell'articolo 9 uno dei contributi più importanti, che negli anni
recenti ha mostrato tutto il suo potenziale: la Repubblica , e non
semplicemente lo Stato, tutela il paesaggio. Nella discussione in Assemblea
questa proposta di sostituzione si ripresentò in altri casi, ma alla luce del
dibattito si può dire che trovò qui la sua espressione più significativa, e
proprio all'ultimo momento, quando il Comitato di Coordinamento aveva di fronte
la discrasia uscita dal voto dell'Assemblea: la
Repubblica tutela i
monumenti, compete allo Stato la tutela del paesaggio.
Il nostro art.9. però, è anche il risultato di
una riflessione che, come già detto tra fine “800 ed inizio “900 coinvolse molti intellettuali
europei su, quale debba essere il ruolo del paesaggio nelle moderne democrazie.
Tra questi va annoverato Benedetto Croce: a chi
gli chiedeva “perché è necessario tutelare il paesaggio? Egli
rispondeva perché un «altissimo interesse morale e artistico legittima
l’intervento dello Stato: poiché il paesaggio «altro non è che la
rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici
particolari con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono
formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Si
nasconde qui una citazione della celebre formula secondo cui il paesaggio è «il
volto amato della Patria».
Questa formula, che in quegli anni ebbe in
Italia quasi il valore di uno slogan, veniva spesso attribuita a Ruskin, e
certo corrisponde alla sostanza del suo pensiero; ma è impossibile
rintracciarla con queste parole nei suoi scritti, ed è tratta piuttosto da una
volgarizzazione del suo pensiero, Ruskin
et
la religion de la beauté di
Robert de la Sizeranne
(1897): Croce non la attribuisce esplicitamente a Ruskin, come molti avevano
fatto; ma subito dopo cita proprio Ruskin come il vero iniziatore del movimento
europeo in difesa della natura e del paesaggio, a partire dal 1862 quando egli
«sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante
delle locomotive e dal carbone fossile delle officine».
Il riferimento a un quadro internazionale
spazia subito in modo più esplicito all’Heimatschutz
tedesco e ad altre esperienze europee (dalla Svizzera all’Austria
e al Belgio ), con una citazione
speciale per la legge francese del 1906.: tornano,
insistiti, la connessione fra paesaggi e «sviluppo dell’anima nazionale», e il
riferimento alle «associazioni potenti sorte per mettere in valore le bellezze
naturali, e imporre, premendo sull’opinione pubblica, la necessità di sanzioni
positive contro le ingiustificate e spesso inutili manomissioni del paesaggio
nazionale».
Perciò è opportuno l’obbligo ai proprietari
di chiedere il permesso delle Soprintendenze per lavori sia in immobili storici
che in luoghi caratterizzati da «bellezze naturali e panoramiche»; perciò è
necessario notificare immobili e paesaggi di «importante interesse»,
sottoponendoli a speciali limitazioni del diritto di proprietà, onde
«contemperare le ragioni superiori della bellezza coi legittimi diritti dei
privati» «I vari interessi contrastanti» devono essere «composti con spirito di
conciliazione», avendo a mente «ciò che è in cima ai pensieri di tutti,
economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l’Italia.
Nella relazione di Croce è la salvaguardia
del paesaggio viene fondata sulla sua affinità con il patrimonio d’arte nel
formare l’identità nazionale, e legittimata mediante paralleli coi più civili
Paesi d’Europa; ma è degno di nota che Croce si preoccupasse, inoltre, di
cercare precedenti nella legislazione degli antichi Stati italiani, trovandoli
infatti nei «Rescritti Borbonici del 19 luglio 1841 e 17 gennaio 1842 e 31
maggio 1843», che «vietavano di alzare fabbriche, le quali togliessero amenità
o veduta lungo la via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte, di
Capodimonte»: in questi casi come nella sua proposta di legge, le limitazioni
alla proprietà privata in null’altro consistono che in «una servitù per
pubblica utilità», poiché sarebbe egualmente inammissibile «deturpare un monumento o oltraggiare una bella scena paesistica,
destinati entrambi al godimento di tutti». Croce non ricorda invece, e forse
non conosce, l’ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 1745 (sulle antichità
di Taormina e i boschi alle pendici dell’Etna) che abbiamo menzionato
all’inizio.
Per una superficiale petitio principii, si è detto qualche
volta che la legge Croce dovesse avere un prevalente carattere estetico. Non è
così. Non sono solo le «bellezze naturali» ad essere «soggette a speciale
protezione», bensì più ampie categorie di «cose immobili», per esempio quelle
che abbiano «particolare relazione con la storia civile e letteraria».
In quella sottolineatura del paesaggio come veduta, cioè del potere
dello sguardo e della storia che
vien coniando uno dopo l’altro i paesaggi
mediante gli interventi dell’uomo sulla natura c’era, è vero, una radice
culturale tipica del primo Novecento, infatti, nello stesso anno (1912) Croce,
Georg Simmel e Charles Lalo fecero riflessioni assai simili sulle bellezze “di
natura” individuate attraverso il filtro dell’arte.
Nel contesto della legge Croce, tuttavia il
riferimento specifico alle vedute e ai panorami va inteso sotto il profilo non estetico
ma giuridico.
Parlare di “vedute”, di “bellezze naturali”,
di “panorami” aveva in quel contesto il doppio vantaggio di assimilare il
paesaggio a un quadro (cioè a una categoria di beni già tutelata dalla legge
del 1909) e di legare la nuova legge alla protezione delle vedute (aspectus, prospectus) radicata nel
diritto romano, e con qualche precedente nei Rescritti del Re di Napoli.
A Croce
spetta anche il merito di aver richiamato con forza non solo il precedente
della legge francese del 1906
a tutti noto, ma la ricca tradizione germanica, che tra
Otto e primo Novecento aveva raggiunto un punto assai alto: da Alexander von
Humboldt, che nel 1859 parla di “monumenti della Natura” alle pagine di Alois
Riegl sul «culto moderno dei monumenti » (1903)
si
affermò allora negli Stati tedeschi un’idea della tutela imperniata sulla
parola-chiave Denkmal
(“monumento”), coi connessi valori di permanenza e di
memoria, e si cominciò a parlare di Kunst-, Geschichts- e Naturdenkmäler
(“monumenti dell’arte, della storia e della natura”). Nacquero in quel contesto
i movimenti di Heimatschutz (“protezione della Heimat”), che
ispirarono la prima legge tedesca a protezione dei monumenti dell’arte e della
natura, nel Granducato di Assia-Darmstadt (1902), e poco dopo la lega per la
protezione della Heimat (1904) e l’ufficio per la protezione dei
monumenti naturali della Prussia (1906). Infine, secondo l’art. 150 della
Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) «i monumenti dell’arte, della
storia e della natura, ed il paesaggio, sono soggetti alla protezione e alla
tutela dello Stato».
La
versione finale dell’art. 9 è molto diversa da questa, ma ne ha conservato
intatto lo spirito.
La tutela
del paesaggio ha dunque, è vero, profonde radici italiane, ma in essa batte
forte anche un cuore europeo.
A Benedetto Croce dobbiamo anche questo, anche
se egli non tiene nel dovuto conto il concetto
di Natura, soprattutto l’abitare dell’uomo in essa che, per Heidegger (
nella famosa disputa sull’abitare e
costruire con Ortega-Gasset ) è: “ soggiornare presso cose e luoghi. "Il
rapporto dell'uomo ai luoghi, e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede
nell'abitare. La relazione di uomo e spazio non è null'altro che l'abitare
pensato nella sua essenza" cioè "Solo
se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire"
Possono sembrare
riflessioni poco pertinenti per un Paese moderno ed industriale come l’Italia,
dove l’edilizia è uno dei settori più importanti per la nostra crescita
economica ma sono anche sotto gli occhi di tutti lo scempio che si è compiuto
sul nostro territorio negli ultimi decenni.
Legambiente
stima che ogni anno si consumano 500 km2 (415 metri quadri per
abitante) di territorio come se ogni quattro mesi spuntasse una città
uguale all’area urbanizzata del comune di Milano: eppure nel 2009, in testa alle città
con il maggior numero di case vuote c’era Roma con 245.142 abitazioni, seguita
da Cosenza (165.398), Palermo (149.894), Torino (144.398) e Catania (109.573). Nello stesso periodo, il maggior numero di
sfratti è stato eseguito a Roma (8.729), a Firenze (2.895), a Napoli (2.722), a
Milano (2.574) e a Torino (2.296).
Il caso
di Roma (in cima a entrambe le classifiche) è emblematico e merita di essere
analizzato. Sia perché, negli ultimi anni, il territorio romano ha visto una
fortissima crescita edilizia, sia perché il comune di Roma è il più grande in
Italia in termini di superficie e di popolazione. Uno
studio originale
e inedito sulle trasformazioni dei suoli a usi urbani nei comuni di Roma e
Fiumicino tra il 1993 e il 2008 rivela come, in 15 anni, questi siano aumentati
del 12% a Roma (con
4.800 ettari
trasformati, quasi tre volte il tessuto “storico” della città compreso entro le
Mura Aureliane) e del 10% a Fiumicino (con 400 ettari ).
La
trasformazione ha interessato in particolare suoli agricoli (Roma è il
più grande comune agricolo d’Europa) ma anche importanti
porzioni di aree naturali. Sono scomparsi 4.384 ettari di aree
agricole, il 13% del totale e 416 di bosco e vegetazione riparia. Ora, in base
ai piani regolatori vigenti nei comuni di Roma e Fiumicino e ai programmi in
atto, è prevedibile un ulteriore consumo di 9.700 ettari ,
prevalentemente agricoli, ossia più di quanto sia stato trasformato tra il 1993
e il 2008.
Altri
Paesi, simili per importanza al nostro, stanno seguendo strade diverse: la Germania ha ridotto il
consumo di suolo da 130 a
30 ettari
giornalieri e la Gran
Bretagna protegge con le sue green belt, le cinture verdi, un
milione e mezzo di ettari, il 12 per cento dell’ intero paese e consente nuove
edificazioni a patto di riutilizzare prevalentemente aree già urbanizzate e
dismesse. In Francia si evita la dispersione urbana con leggi che impongono di
costruire esclusivamente in continuità con le zone urbanizzate».
Qualcosa
però pare stia cambiando anche da noi: infatti, la settimana scorsa hanno
protestato davanti alla Borsa di Milano (con lo slogan “il giorno della
collera”) i rappresentanti dell’A.N.C.E. (ass.naz. costruttori edili): essi
chiedono che lo Stato paghi, almeno parte dei lavori eseguiti, entro il limite
dei 30 giorni come voluto dall’U.E. ma soprattutto che si sblocchi il patto di
stabilità, non per costruire nuove abitazioni, così come ha ricordato il suo
presidente Buzzetti, ma per riqualificare il patrimonio esistente, sia
abitativo che paesaggistico e per mettere sicurezza il territorio dal dissesto
idrogeologico
Una
speranza in più se il cambio di paradigma è voluto dagli stessi costruttori.
Nessun commento:
Posta un commento