sabato 21 luglio 2012

La classicità contemporanea di Canci



Riflessioni per una pre-lettura della sua retrospettiva ‘centenaria’ al Palazzo D’Avalos di Vasto 

Vincenzo Canci (1911 – 2003). Lo diresti, in arte, un ‘contemporaneo’? A voler rispondere di sì, o pure con un no, si avrebbe in ogni caso una propria legittima opinione. Ma non perchè, com’è in sorte agli umani e alle sue vicende, “se ciascuno dice il contrario dell’altro ... hanno tutti ragione” (C. Pavese). E’ che con il termine “contemporaneo”, di là del suo significato letterale, per cui ciascuno è figlio e testimone del proprio tempo, in arte (o meglio nelle significazioni che attengono ai suoi sviluppi e storicizzazioni) s’intende un modo di essere e di fare innovativo e dirompente, rispetto a una ‘maniera’ genericamente definita tradizionale, ivi compreso la “moderna”, nata e sviluppatasi nel periodo che va dal secondo ‘800 alla prima metà del ‘900.
Nel 1959 (Premio Vasto - I Edizione) Canci fu annoverato fra “i pittori vastesi contemporanei del novecento”, unitamente ai D’Aloisio del Vasto, Galante, Fiore, Lattanzio, Minerva e Martella... Che costoro lo fossero, in termini novecenteschi, era più o meno vero, ma già d’allora l’accezione di contemporaneità cozzava con la coeva pratica dell’arte che, dal Dadà, dai rady-made di Duchamp, aveva preso altro itinerario e destino: diversi anche da quelli percorsi e tracciati dai noti Maestri dell’arte Moderna, stimolando nel campo una sensibilità creativa ‘straniata’ e di definitiva rottura dalle discipline artistiche tradizionali e accademiche. Tant’è che – trascorso ormai un secolo dalle provocazioni citate, attraversando tutti gli ismi e le avant-post-trans-avanguardie, ancora oggi le due linee della produzione artistica, con intrusioni e resistenze fra i due campi d’azione, restano “rette parallele”, inevitabilmente distinte se non divergenti. Non a caso il “Premio Vasto” di quest’anno, ha come argomentazione l’assunto che – senza voler “fare guerra” a forme (tecniche e mezzi) ormai preminenti e ampiamente supportate dall’ufficialità mediatico-commerciale – occorra dare ad artisti anch’essi contemporanei il buon diritto di esprimersi, con provata valenza e attenzione, in pittura e scultura, e che queste non debbano essere considerate espressioni di una “lingua morta” della comunicazione estetica.
Sotto quest’aspetto, allora, Vincenzo Canci può vantare una sua contemporaneità che diremo ‘classica’, di cifra tecnica certamente moderna (naturalmente figlio ed emulo dei maestri attivi, come detto, tra otto e novecento) per una sua concezione dell’arte, della pittura in particolare, come ‘figurazione’ della realtà visiva che ci circonda e in certo senso ci sostanzia. Ambiente e natura, uomini e cose, stagioni ed eventi storici: un’eidetica visione da proporre, da far decantare nella sua forma-colore, da tenere per sé e poi trasmettere a chi poi verrà nello stesso luogo, in uno scenario antropicamente destinato ad essere e divenire diverso eppur sempre uguale.
Ecco che allora Canci, non a caso, è definito dai biografi e recensori “poeta del colore”, “grande interprete del realismo figurativo” ed anche “cantore della sua terra” e della sua popolazione, riguardata nelle sue attività e destino quotidiano, e non come ‘figure’ d’ideologiche “classi sociali”. Quadri di vita, ordinariamente descritti ma mai banali, efficacemente comunicativi per una cifra stilistica che ha nella figurazione, realistica eppur sempre lirica – tracciata con freschezza di tratto nuovo rispetto ai maestri, anche locali, dell’ottocento – il mezzo più che efficace per giungere allo scopo: trarre poesia dal vissuto, dare immagine, inverante più che illustrativa, del proprio spazio-tempo. Il luogo e il proprio vissuto divengono così mito maieutico e irrinunciabile al proprio e altrui esistere, necessario a porci in una dimensione epifanicamente utile a far amare, più che a memoriare, la propria vicenda umana e il comune habitat. Cosicchè i casolari, le marine, i paesaggi agresti e quelli urbani, estivi o invernali, appaiono ‘dipinti’ da Vincenzo Canci, prima che dai diversi pigmenti utilizzati, da una forte adesione sentimentale, talora nostalgica, alla visione data. Testimonianza, la sua, efficacemente persistente, di un’arte pittorica che - classicamente - si pone ancora come strumento per una intelligenza e conservazione iconica, culturale ed estetica, di sé e degli altri.  

Giuseppe F. Pollutri

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