Riflessioni per una
pre-lettura della sua retrospettiva ‘centenaria’ al Palazzo D’Avalos di
Vasto
Vincenzo Canci (1911 –
2003).
Lo diresti, in arte, un ‘contemporaneo’? A voler rispondere di sì, o pure con
un no, si avrebbe in ogni caso una propria legittima opinione. Ma non perchè,
com’è in sorte agli umani e alle sue vicende, “se ciascuno dice il contrario
dell’altro ... hanno tutti ragione” (C. Pavese). E’ che con il termine
“contemporaneo”, di là del suo significato letterale, per cui ciascuno è figlio
e testimone del proprio tempo, in arte (o meglio nelle significazioni che
attengono ai suoi sviluppi e storicizzazioni) s’intende un modo di essere e di
fare innovativo e dirompente, rispetto a una ‘maniera’ genericamente definita tradizionale,
ivi compreso la “moderna”, nata e sviluppatasi nel periodo che va dal secondo
‘800 alla prima metà del ‘900.
Nel
1959 (Premio Vasto - I Edizione) Canci fu annoverato fra “i pittori vastesi contemporanei del novecento”, unitamente ai
D’Aloisio del Vasto, Galante, Fiore, Lattanzio, Minerva e Martella... Che costoro
lo fossero, in termini novecenteschi, era più o meno vero, ma già d’allora l’accezione
di contemporaneità cozzava con la coeva pratica dell’arte che, dal Dadà, dai rady-made di Duchamp, aveva preso altro
itinerario e destino: diversi anche da quelli percorsi e tracciati dai noti Maestri
dell’arte Moderna, stimolando nel campo una sensibilità creativa ‘straniata’ e
di definitiva rottura dalle discipline artistiche tradizionali e accademiche. Tant’è
che – trascorso ormai un secolo dalle provocazioni citate, attraversando tutti
gli ismi e le avant-post-trans-avanguardie, ancora oggi le due linee della
produzione artistica, con intrusioni e resistenze fra i due campi d’azione,
restano “rette parallele”, inevitabilmente distinte se non divergenti. Non a
caso il “Premio Vasto” di quest’anno, ha come argomentazione l’assunto che – senza
voler “fare guerra” a forme (tecniche e mezzi) ormai preminenti e ampiamente
supportate dall’ufficialità mediatico-commerciale – occorra dare ad artisti
anch’essi contemporanei il buon diritto di esprimersi, con provata valenza e
attenzione, in pittura e scultura, e che queste non debbano essere considerate espressioni
di una “lingua morta” della comunicazione estetica.
Sotto
quest’aspetto, allora, Vincenzo Canci può vantare una sua contemporaneità che
diremo ‘classica’, di cifra tecnica certamente moderna (naturalmente figlio ed
emulo dei maestri attivi, come detto, tra otto e novecento) per una sua
concezione dell’arte, della pittura in particolare, come ‘figurazione’ della
realtà visiva che ci circonda e in certo senso ci sostanzia. Ambiente e natura,
uomini e cose, stagioni ed eventi storici: un’eidetica visione da proporre, da
far decantare nella sua forma-colore, da tenere per sé e poi trasmettere a chi
poi verrà nello stesso luogo, in uno scenario antropicamente destinato ad
essere e divenire diverso eppur sempre uguale.
Ecco
che allora Canci, non a caso, è definito dai biografi e recensori “poeta del
colore”, “grande interprete del realismo figurativo” ed anche “cantore della sua terra” e della sua popolazione,
riguardata nelle sue attività e destino quotidiano, e non come ‘figure’ d’ideologiche
“classi sociali”. Quadri di vita, ordinariamente descritti ma mai banali,
efficacemente comunicativi per una cifra stilistica che ha nella figurazione,
realistica eppur sempre lirica – tracciata con freschezza di tratto nuovo rispetto
ai maestri, anche locali, dell’ottocento – il mezzo più che efficace per
giungere allo scopo: trarre poesia dal vissuto, dare immagine, inverante più
che illustrativa, del proprio spazio-tempo. Il luogo e il proprio vissuto divengono
così mito maieutico e irrinunciabile al proprio e altrui esistere, necessario a
porci in una dimensione epifanicamente utile a far amare, più che a memoriare, la
propria vicenda umana e il comune habitat. Cosicchè i casolari, le marine, i paesaggi
agresti e quelli urbani, estivi o invernali, appaiono ‘dipinti’ da Vincenzo
Canci, prima che dai diversi pigmenti utilizzati, da una forte adesione
sentimentale, talora nostalgica, alla visione data. Testimonianza, la sua,
efficacemente persistente, di un’arte pittorica che - classicamente - si pone ancora
come strumento per una intelligenza e conservazione iconica, culturale ed estetica, di
sé e degli altri.
Giuseppe
F. Pollutri
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