Quando mi mandavano a comprare il
pane quasi sempre, per raggiungere il peso giusto, mi davano “l’ajjonda” (non
so se si scrive così).
Il pane si vende a peso e il
fornaio alla pagnotta o al filone quando non raggiungeva il chilogrammo ne aggiungeva un'altra fetta per compensare e
raggiungere il giusto peso. Mentre tornavo a casa quella fetta fragrante,
morbida, profumata mi attraeva e non resistevo: la dovevo mangiare. A volte mi
capitava di prendere il pane anche per mia nonna o per qualche zia e invece di
darmi la differenza in forma di pane, zia Juccia de “Lu Furnarille” (Del Frà)
mi dava una pizzetta (di quelle croccanti che si piegavano in due. Costavano
allora 30 lire) oppure dei panini all’olio (costavano 10 lire) o anche dei
biscotti di quelli che erano buoni sia col latte che con il vino.
Mi ero accorto che questi “bis-cotti”
venivano cotti due volte e a me piacevano quando erano morbidi di prima
cottura. Zia Juccia lo sapeva e me ne metteva sempre qualcuno da parte.
Andare dal fornaio era
interessante. Vedevo il vecchio “titolare” col bastone e la moglie seduti al
caldo a dare “consigli”, osservavo le massaie che portavano a cuocere batterie
di tegami di dolci oppure conigli o altro tipo di carni che sulla fornacella o
sulla “cucina economica” era difficile cuocere.
Ascoltavo rumori come quello dell’aprire
e chiudere il forno o quello della pala in legno che serviva per infornare o
sfornare. Un rumore particolare, che a me piaceva molto, era quello delle 500
lire d’argento che battevano sul piano di marmo per capire se erano autentiche.
Certo non ci sono più i forni di
una volta! (oppure sono io che non riesco più a “gustare” certi momenti)
Potrei dilungarmi a lungo, magari
raccontando di Gino, un mio compagno di classe alle elementari che, la mattina
presto, andava a imparare il mestiere di fornaio. Alle otto poi veniva a scuola
e, alle otto e un quarto, dormiva come un angioletto. La maestra capiva … anche
noi capivamo.
A Vasto c’erano tanti forni - ancora
si “leggono” strade come via del Forno Rosso oppure spazi come largo dei
Quattro Forni - e c’erano anche i fornai con i loro strani nomi.
Prima ho citato “Lu Furnarille” in
corso Plebiscito ma l’elenco è lungo. C’era “Zi Punille” (Troilo - Armeno) che
aveva due forni. Uno in via San Francesco d’Assisi e uno in via Santa Maria
(dove ora c’è Stanisci). Sempre in via Santa Maria c’era “Ciuffulone” o
“Truffulone”(Martella). Scegliete voi. Più avanti, a piazza Santa Chiara, c’era
“La Scimmia ”
(Monteferrante). A Sant’Anna, proprio di fianco all’ingresso della chiesa,
c’era “Zia Jetta” (Molino). In via Canaccio c’erano “Paparille” (Monteferrante)
e “Biacille” (Saraceni). In largo dei Quattro forni se ne ricordano due:
“Saracone” (Molino) e “Panepane” (Suriani). Al “Giardinetto” c’era
“Cappuccelle” (Tana). Ricordiamo poi “La Ferrarese ” e Bosco in corso Garibaldi, Ciffolilli
in corso Mazzini (mi dicono che era denominato “Zia Rusine” ma io non lo so),
“Lischitille” (Di Risio) in Via Ciccarone. … E “Pucciarille” addò statteve?
Non chiedetemi di più … vado a
farmi un panino.
Se avete vostri ricordi, volete
fare precisazioni o correggere “errori ed omissioni” fate pure.
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