Di Felice Monteferrante
Elena Sangro al secolo: Maria
Antonietta Bartoli all’anagrafe Avveduti , nata a Vasto il 5 settembre 1897
aveva cominciato a fare cinema ventenne in Fabiola
e nella Gerusalemme liberata di Enrico Guarzoni.
A Roma nel 1919 incontra per la
prima volta Gabriele D’Annunzio: non si sa se col suo vero nome o con il suo
nome d’arte Elena Sangro.
Il nome è certamente di conio
dannunziano ed è facile credere che l’abbia assunto dopo l’incontro col Vate;
ma se è stata lei ad inventarselo, dopo il suo esordio cinematografico, nel
1917, siamo nella sfera della fatalità, destinata ad incontrare D’annunzio ad
esserne l’amante ed ispirargli il Carmen votivum: comunque battezzata nel
cinema Elena Sangro D’annunzio la chiamò per se Ornella.
Nel 1924 nel Vate divampa di lei
un ricordo telegramma :”All’improvviso
un comune amico mi da la notizia di Ornella e mi ricordo i bei giorni di Roma.
Mandatemi una parola e fatemi sapere che ci rivedremo”.
Si rivedono nel 1927, quando
l’attrice fa un lungo soggiorno al Vittoriale. Lei ha 30 anni il poeta 64 ma
furiosamente si amano.
Desta interesse la vita di Elena
Sangro che, fu segnata da quell’incontro da quell’adorazione, le sue vane
istanze, una volta uscita dal Vittoriale, di essere ricordate ed aiutata ed
infine il suo patetico declino. E ricordata lo era: ma da una fotografia che il
poeta teneva nello studio dalla rilettura “afrodisiaca “ come forse per nessun
altro di quel libro capezzale che gli era diventato quel Carmen votivum.
Anche Elena disse che la
pubblicazione del carme era stata per lei “la spada che egli diresse contro la
mia indifesa persona”, come D’annunzio si era per lei ,come per ogni donna più
o meno fugacemente conosciuta, eletto al ruolo di Pigmalione , così come lei si
era calata nel ruolo di Afrodite a colui che l’aveva foggiata nella voluttà:
dopo il carme aveva sentito il proprio corpo come creato da lui, modellato come
“opera di scalpello”, modulato come musica fermo nel tempo incorruttibile.
Da ciò il suo denudarsi nel cinema,
quando era raro che un attrice si denudasse;da ciò forse, penosa illusione, il
suo farsi fotografare nella vasca da bagno, ricordando forse, “quel bagno blu”
che ogni visitatore del Vittoriale scoprirà piccolo e pieno di tanti oggetti di
pessimo gusto, in cui Gabriele, per telegramma, le assicurava di cercarla.”ti
cerco nel bagno blu”, “l’appartamento del bagno blu è pieno di tristezza”. E
qui viene da osservare come ad un certo punto, diventi momento comico, quel
trasfigurare la realtà che è peculiarità, spesso impareggiabile, di
D’annunzio:”Verso i lavacri tu ti snodi e t’alzi e balzi, molle nube ove celato
sia l’arco dèlio”, che è il correre al bidet dopo l’amplesso, blu quanto si
vuole ma bidet.
Bisogna però tenere presente che,
negli anni Venti e Trenta, il mito di Pigmalione diversamente interpretato e
praticato, era in pieno rigoglio ed il mondo del cinema ne dava vasta e diffusa
realizzazione con la creazione di dive, stele e vamps:spesso giovinette di
piccola ed infima borghesia, impacciate, maldestre, le più ignoranti, alcune un
po’ stupide ( ma belle puramente o con
qualche interessante imperfezione) bastava entrassero nell’occhio un po’
saltellante della macchina da presa per ascendere alle costellazioni di quella
volta notturna che era il cinema. Se poi dagli studi cinematografici italiani
passavano a quelli a stelle e strisce, era la perfezione: stelle di prima
grandezza.
Ma da questo pigmalionismo
pragmatico ed industriale ve ne era un altro più sottile cioè il rapporto tra
Pigmalione e la statua, tra colui che l’ha modellata e l’animato dono che
gliene fa Afrodite, tra il regista e la diva come quello tra Joseph von
Sternberg e Marlene Dietrich. Ed è forse pensando a questo tipo di rapporto che
Rouben Mamoulian realizza, nel 1933, il cantico
dei canti: una statua al centro dell’azione, la Dietrich appunto, che ne
è stata la modella protagonista.
Ma di “forme” modellate da mano e
di volontà altrui anche la letteratura viene a popolarsi: basti ricordare, per
la parte che vi ha una statua, la commedia di Pirandello Diana e la Tuda , del 1927.
Mentre D’annunzio, modellava e
modulava Elena Sangro, dandole quella forma che ne imprigionò forse la vita, lo
scultore Giuncano, protagonista della commedia, faceva in effetti, con più
drammatiche implicazioni e complicazioni, un operazione assai somigliante.
Nell’archivio del Vittoriale, le
lettere della Sangro ed i numerosissimi telegrammi (D’annunzio tanti ne faceva
e ne riceveva che, il telegramma sembra assurgere a genere letterario) sono
divisi in 2 fascicoli e con diversa collocazione. L’intestazione dei fascicoli
è di uno “Elena Sangro” dell’altro “Ornella”:approssimativamente si può dire
che il primo contiene i messaggi di ardente amore e dell’ancora ardente
memoria, il secondo quelli della malinconica lontananza , della devozione, del
bisogno. Il tu, “l’adoratissimo Ariel”, “l’Ariel caro e bravo”, nelle lettere
firmate “Elena”, il voi, il “gentilissimo comandante” in quelle firmate
“Ornella”.Tra i 2 gruppi c’è una specie di trait
d’union
Nelle lettere firmate “Ornella”
ma ancora ardenti. C’è la lontananza del Voi , ma D’annunzio non è il
comandante, è l’amico “Gentilissimo” e “Amatissimo”.
Tra queste lettere del passaggio
del guado, per lei, dalla sponda dell’esaltazione a quella della rassegnazione
ve n’è una non datata “Amico gentilissimo ed amatissimo, ho riletto la Vostra lettera con più
calma e per parecchie volte, soprattutto perché mi piace, come tutte le altre
indirizzatemi, ma questa è tanto più originale e giusta specialmente dove mi
dite che sono cocciuta. Infatti, quando riesco a mettermi qualcosa nella testa
preferisco romperla contro il muro che cedere. Così come faccio ora, non sento
di dover partire se non avrò avuto il piacere di salutarvi e di vedervi sia
pure per sol cinque minuti, perché difatti cosa sono cinque minuti dinanzi a
tutte le vostre grandi possibilità?
So bene che quando Vi vedrò mi
ghiaccerete con le Vostre rigidità, ma perché mio Dio deve accadere che mi
rifiuti di vedermi? Ad Ariel tutto è permesso ma non è peccato per in Poeta negare
(da correggere in negarsi) le grazie di una donna se non comune o qualunque
sia, se bella?
È strano ma questa notte mi è
sembrato di diventare vecchia di cinquant’anni (ma, cancellato) lo specchio mi
trovava pur tuttavia ma nella solitudine di questo lago, che mi rattrista, pur
essendo giovane mi sembrava di aver raggiunta l’altra metà dei miei anni,
perché ero sola! Ho sospirato e mi
sono augurata tante volte che il lago si fosse agitato per sentire almeno
muovere la mia anima, tanto triste! Io che vedo intorno a me sempre un circolo
di ammirazione, forse anche immeritata se debbo essere modesta, ho sentito la
malinconia della solitudine ed ho anche pianto per la mia stessa malinconia,
per la lontananza, benché tanto vicina alla Tua persona e per la mia piccola
sorellina che adoro e che ho lasciato malata con la febbre alta a Roma.
Ho pensato quanto ci si può
sentire piccoli di fronte all’immensità quando si è soli e si soffre. Ed io che
sento di portare con me un piccolo tesoro, dei miei sentimenti, mi sono sentita
come se fossi già sotterrata e forse la mia strada sarà forse lunga e dovrò
forse molto soffrire per l’unico mio sentimento che si congiunge alla
bellezza:l’amore. Ed io mio Ariel mi amo e soffro per le persone che amo e per
me stessa ho bisogno di essere amata in ogni minuto che passa, nella solitudine
forzata sono anche io capace di amare gli alberi,le piante, la luna ma come
sopportare la loro immobilità? Ieri sera passeggiavo sola per i viali del
Savoia, c’erano sulle piante delle belle e grandi rose bianche, sono stata
tentata di rubarne una ma mi sono vergognata di farlo, le ho guardate e le
avrei anche baciate ma mi sono sentita il cuore tanto piccolo. Ne ho altre qui
nella stanza, le rose sono sempre con me, le ho portate da Roma con molta cura,
c’è una persona a Roma che lo sa e si occupa di questo anche quando debbo
partire. Ricorderò mio Ariel , questa orribile notte di Gardone; non è tutta
colpa mia, è vero che io sono giunta senza preavviso, in tempo confermato (sic:
ma intende dire che avrebbe dovuto annunciare la visita e aspettare il placet)
ma perché privarmi della tua vista? Perché trattarmi con tanta indifferenza
Ariel, io che ti sono tanto fedele, umile ma non bassa, amica? Forse mi hai
detto per complimento che mi desideri ed invece non è così , ma perché non
porgermi la tua mano di amico? Ho una piccola particella di orgoglio, per la
quale talvolta soffro, e per la quale sento che molto avrò da soffrire nella
vita.
Se non mi sarà dato di vederti,
partirò per il mio destino e attenderò sempre e dovunque mi troverò un tuo
cenno che mi renderà veramente felice.
Come vedi sono cocciuta e non
poteri partire senza inviarti questa mia che mi stava scritta nel pensiero e
nell’anima. Non ci si può con Te, è vero, ma non potrai non accettare questo
mio bene. Per sempre Ornella”
Questa lettera che forse
D’annunzio non lesse, che forse non ebbe risposta ( è da immaginare come la Baccara vigilasse a che
non ci fossero ritorni di fiamma: generalmente più pericolosi per un uomo di sessantacinque
anni, dell’avvampare di una passione la cui stessa intensità ne garantiva lo
spegnersi), questa lettera è una delle tante dei due fascicoli.
Ma c’è un punto di vera
consustanziazione del personaggio al suo autore: quando dice “io mi amo”.
È il più vero motto che
D’annunzio avrebbe potuto adottare. E viene da Giacomo Casanova.
Cinematografia
1917, La
Gerusalemme
liberata di Enrico Guazzoni
1919, Il fauno di marmo di Giovanni Maria Viti
La principessa Zoè
1920, Stella
1921, Saracinesca
1922,Sansone di Torello Rolli
Non v’è Resurrezione senza morte, prodotto dal comitato
montenegrino sotto la presidenza di D’annunzio
1923, Troboulet, la corte dei
miracoli di Febo Mari
1924, la taverna verde, di Luciano Doria
Maciste imperatore di Guido Brignone
Quo Vadis?, di Georg Jacoby e Gabriellino D’annunzio
Nessun commento:
Posta un commento