giovedì 22 settembre 2022

Il sorbo di Salamastra

 




La vettura saliva le scalette di Zia Rachele, stando molto attenta a dove metteva i piedi. Se trovava un buco, di qualsiasi dimensione fosse, si fermava finche nonno Paolo non lo riempiva. Aveva molta cura di se la vettura.

Una mattina di fine ottobre, ancora insonnolito, nonno Paolo mi caricò sul dorso della vettura e lentamente si incammino con essa verso contrada Salamastra, per raggiungere l’uliveto di famiglia. Questo era un posto speciale per la qualità dell’olio. Olio che si sarebbe ottenuto dalla mistura di olive, raccolte dalle diverse varietà di piante, sapientemente interrate nei secoli precedenti e ancora curate dai miei nonni con pazienza e memoria, proprio per ottenere un preciso e unico sapore. “Quass’è l’uje di Stobbene. S’aricanosce!” Avrebbero detto al frantoio e mio nonno se n’aripriave.

Erano da poco passate le quattro, era ancora notte e una fitta foschia ci avvolgeva. Mi distesi tra la sella e i baonzi e mi riaddormentai cullato dall’ancheggiare e dal lento scalpito degli zoccoli di Rosina.

Rosina era l’affettuoso nome che mio nonno aveva dato alla sua asina. In paese gli asini venivano definiti vetture o peggio, con disprezzo, ciucci. Mio nonno invece riteneva il suo animale come una compagna di lavoro e, se vogliamo, anche di viaggio nella vita. Non era raro sentirlo parlare con Rosina di storia o filosofia, dei “drammi” da Mario e Silla fino a Cadorna passando per Rosmini o addirittura Lombroso. E se qualcuno lo sfotteva dicendogli: “che ffì’, pèrle ‘nghi ll’asene?”  lui fieramente rispondeva: “almene àsse mmi’ sta à ssendè! Ti ni’mmi’ sìnde e ni’mmi’ ‘ndinde”.

Mi svegliai che albeggiava. Intorno, l’erba autunnale era coperta da un qualcosa di bianco, simile a grosse ragnatele. Dicevano fosse “la manna”, ma io non lo so, per certi versi mi faceva impressione. Non scesi a terra fino all’arrivo.

Raggiungemmo il luogo e già dopo un primo sguardo rivolto agli alberi, sul volto di mio nonno si accese un ampio sorriso. Cominciò il suo lavoro canticchiando canzoncine militari, di quelle che si cantavano nelle caserme, che lui aveva imparato durante i suoi due anni di leva a Palermo. Perfino era stato Caporale e se ne vantava. “L’unico periodo in cui sono stato rispettato”, diceva, “fu durante il servizio militare a Palermo”. Qui nonostante l’età, rimango sempre Pauluccio di Stobbene.

Intanto le ore passavano. Arrivati intorno alle dieci del mattino, almeno così diceva lui regolandosi col sole, decise che si doveva fare colazione. Aprì un fagottino con pane, formaggio, salame acqua e vino e preparò dei panini.

Avevo diffidenza a mangiare il formaggio perché avevo visto mia nonna mungere una pecora, con la testa, protetta da un grezzo foulard, appoggiata al sedere di questa e gli spruzzi di latte che riempivano un secchio di alluminio. Però, sarà stata la fame, da quel giorno sono diventato un appassionato estimatore di formaggio di pecora. Conservo gelosamente una serie di canestrelli di paglia che si usavano come formine, mi sono sempre riproposto di provare a fare il formaggio ma non ho mai cominciato e purtroppo dubito che lo farò.

Ripreso il lavoro, il sole aveva riscaldato l’aria e il bianco che ricopriva l’erba era sparito, m’intrattenevo con Rosina che, libera da ogni legaccio, aveva raggiunto un albero di fichi il quale era cresciuto spontaneo e sceglieva i fichi migliori. Ogni tanto mi guardava e con i suoi occhi sembrava che mi prendesse in giro. Aveva uno sguardo sorridente e appagato. Mio nonno intanto, vedendomi incuriosito, cominciò a parlarmi di una parabola del vangelo che parlava di un fico, di un padrone che voleva tagliarlo e di un servo che lo invitò a non farlo. All’epoca mi sembrò una favola poi crescendo ho riflettuto molto su quella parabola.

Quando il sole si era fatto caldo, si senti il suono di campane. Mi domandai come facesse ad arrivare fino a noi quel suono, giacché eravamo così lontani dal centro abitato, ma la curiosità svanì, dispersa nel profumo che proveniva da un tegame di terracotta che conteneva il cacioeovo che mia nonna aveva preparato la sera prima. Il rito dell’apertura dei fagotti, il movimento delle dita atte a sciogliere i nodi della tovaglietta sapientemente usata per proteggere i tegami e il profumo del loro contenuto, mi ha sempre affascinato. 

Mangiammo veloce poiché si doveva completare il lavoro e il sole correva veloce. Mio nonno era contento per l’interesse che mostravo a guardarlo ma era ancora più contento se, disinteressandomi di lui, mi dedicavo ad altro. “La vita del contadino è una vitaccia; Fatica, sudore e nessun rispetto”, ripeteva spesso, ma in quella occasione ero troppo piccolo per capire perché mi distraesse se mostravo interesse per li suo lavoro. Pensavo che mi ritenesse incapace e mi dispiaceva.

Passarono ancora un paio d’ore. “Dai che è tardi! Dobbiamo riavviarci”. “Ma, Nonno Pa’, è ancora presto!”. “Qui il sole si copre dietro la collina di fronte e fa notte subito. Noi dobbiamo tornare a casa. I Vecchi dormivano qui ma noi …”

Prima di ripartire, aprì un fazzoletto molto colorato di quelli che si usano per asciugare il sudore. Dentro c’erano dei semi. Mi disse che erano semi di sorbo e aggiunse: “piantali. Ci vorranno anni ma vedrai che ogni volta che passerai da queste parti, guardando la pianta che crescerà, ti ricorderai di questa giornata.

Completata l’operazione, dopo una scrollata alla terra rimasta sulle ginocchia, accompagnata dalle prime ombre della sera la vettura, guidata con maestria da mio nonno, s’incamminò lentamente verso casa.

All’imbrunire arrivammo alle scalette di zia Rachele. Mio nonno scese da sella dicendomi: “ce la fai a guidarlo da solo e raggiungere la casa?” Io entusiasta risposi di si. Lui si fidò.

 Vincenzo e Nicola, due monelli della contrada detta “Li Filanzire”, stavano giocando, lanciandosi in discesa, a forte velocità, con la loro carrozzella di legno montata su ruote a sfera ma vedendomi arrivare e conoscendo l’abitudine dell’asino, scavarono una buchetta sulla strada e puntualmente la vettura si fermò. I due ridevano ma io, senza scompormi, richiusi il buco. “Rosina andiamo!” esclamai. L’asino riprese il cammino e, col muso rivolto ai due ragazzacci, cominciò a ragliare. Sembrava che li rimproverasse. I due si arresero e si dedicarono ad altro.

Arrivati a casa fui accolto dal solito sorriso di mia nonna che, avvertita dal ragliare di Rosina era già pronta con una grande tinozza piena d’acqua … il pieno per la vettura.

La serata cominciava a essere umida e le abitanti della strada avevano già riposto i lavori di merletto e i lavori a maglia che nel pomeriggio avevano realizzato, sedute davanti all’uscio delle loro case, chiacchierando tra loro e godendo dei raggi del sole che fino a quell’ora aveva riempito la strada. Da via Vesuvio allora si vedeva il mare e mentre l’asino beveva, io fissavo quell’immensa distesa di acqua che, nonostante fosse autunno, mi attraeva.

Da quella visione mi distraevano unicamente le domande di nonna Carmela sul come era andata la giornata. In quella occasione glie ne feci io una: “ma come fa Nonno Paolo a conoscere tutte le storie che racconta?”

Quando tornava zio Paolo Barone dai suoi viaggi – rispose mia nonna – passavano tanto tempo assieme, a volte nottate intere, seduti sugli scalini della chiesa della Madonna delle Grazie a raccontarsi storie; a volte si fermavano anche i passanti ad ascoltare. Ora nonno coglie ogni occasione per raccontare a te quelle storie.

Solo ai tempi del liceo capii cosa leggesse zio Paolo Barone, imbarcato sulle navi tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, durante le sue crociere commerciali, nientemeno che fino in Corea e in Giappone. L’ultimo libro che lesse fu: Paradise Lost di John Milton.

Oltre a questo testo conservava sotto il suo letto, centinaia di libri in diverse lingue. Questa collezione resistette alla sua morte ma non a quella di sua moglie, zia Rachele, quella delle scalette. I libri e tanti ricordi di una vita passata navigando nel mondo furono bruciati perché un prete aveva “invitato” a non leggere quelle opere poiché erano frutto del diavolo e portavano al peccato. Io all’epoca non c’ero né avrei potuto fare nulla per salvare qualcosa. Come avrei potuto vincere contro quel tipo d’ignoranza?

Piano piano, Filomena, Grazia, Carmela, Concetta, Lidia, Spina … ci hanno lasciato e nessuno le ha rimpiazzate più in quella strada. Un palazzo costruito di recente, con la sua ombra rende tutto buio, dalla strada non si vede più il mare e nemmeno dai balconcini delle piccole case. Via Vesuvio, un “Paradise Lost” che niente ha a che vedere con quello di John Milton ma che a me, ogni volta che scivolo in quel ricordo, pare una veggenza.

Da molti anni anche l’uliveto è rimasto abbandonato. La vita moderna poco si adatta alla fatica e al sudore. I rovi hanno avvolto e coperto gli antichi alberi di olivo; i vicini passano negli spazi praticabili con i loro mezzi senza rispetto per la proprietà altrui; la fauna selvaggia si è appropriata del luogo e quest’ultima è la cosa che mi dispiace di meno.

Alcuni giorni addietro, la nostalgia mi ha invitato a passare da quelle parti e con la mia attuale vettura. Con questa per raggiungere l’uliveto bastano pochi minuti non ore come all’epoca, altro che Rosina! E poi, la strada è ora è asfaltata e ha un nome segnalato da un cartello: Via Vilignina.

Ho visto il sorbo. Mi è apparso gigantesco. Gigantesco come la montagna di storie, di ricordi, di tradizioni, di esperienze, di cultura, di persone che in sessanta anni abbiamo completamente cancellato. Mi è tornata in mente “quella giornata”. Ho pianto.