La vettura saliva le scalette di Zia Rachele, stando molto
attenta a dove metteva i piedi. Se trovava un buco, di qualsiasi dimensione
fosse, si fermava finche nonno Paolo non lo riempiva. Aveva molta cura di se la
vettura.
Una mattina di fine ottobre, ancora insonnolito, nonno Paolo
mi caricò sul dorso della vettura e lentamente si incammino con essa verso
contrada Salamastra, per raggiungere l’uliveto di famiglia. Questo era un posto
speciale per la qualità dell’olio. Olio che si sarebbe ottenuto dalla mistura
di olive, raccolte dalle diverse varietà di piante, sapientemente interrate nei
secoli precedenti e ancora curate dai miei nonni con pazienza e memoria,
proprio per ottenere un preciso e unico sapore. “Quass’è l’uje di Stobbene. S’aricanosce!” Avrebbero detto al
frantoio e mio nonno se n’aripriave.
Erano da poco passate le quattro, era ancora notte e una
fitta foschia ci avvolgeva. Mi distesi tra la sella e i baonzi e mi
riaddormentai cullato dall’ancheggiare e dal lento scalpito degli zoccoli di
Rosina.
Rosina era l’affettuoso nome che mio nonno aveva dato alla
sua asina. In paese gli asini venivano definiti vetture o peggio, con
disprezzo, ciucci. Mio nonno invece riteneva il suo animale come una compagna
di lavoro e, se vogliamo, anche di viaggio nella vita. Non era raro sentirlo
parlare con Rosina di storia o filosofia, dei “drammi” da Mario e Silla fino a
Cadorna passando per Rosmini o addirittura Lombroso. E se qualcuno lo sfotteva
dicendogli: “che ffì’, pèrle ‘nghi ll’asene?” lui fieramente rispondeva: “almene àsse mmi’ sta à ssendè! Ti ni’mmi’ sìnde e ni’mmi’ ‘ndinde”.
Mi svegliai che albeggiava. Intorno, l’erba autunnale era
coperta da un qualcosa di bianco, simile a grosse ragnatele. Dicevano fosse “la
manna”, ma io non lo so, per certi versi mi faceva impressione. Non scesi a
terra fino all’arrivo.
Raggiungemmo il luogo e già dopo un primo sguardo rivolto
agli alberi, sul volto di mio nonno si accese un ampio sorriso. Cominciò il suo
lavoro canticchiando canzoncine militari, di quelle che si cantavano nelle
caserme, che lui aveva imparato durante i suoi due anni di leva a Palermo.
Perfino era stato Caporale e se ne vantava. “L’unico periodo in cui sono stato
rispettato”, diceva, “fu durante il servizio militare a Palermo”. Qui
nonostante l’età, rimango sempre Pauluccio di Stobbene.
Intanto le ore passavano. Arrivati intorno alle dieci del
mattino, almeno così diceva lui regolandosi col sole, decise che si doveva fare
colazione. Aprì un fagottino con pane, formaggio, salame acqua e vino e preparò
dei panini.
Avevo diffidenza a mangiare il formaggio perché avevo visto
mia nonna mungere una pecora, con la testa, protetta da un grezzo foulard,
appoggiata al sedere di questa e gli spruzzi di latte che riempivano un secchio
di alluminio. Però, sarà stata la fame, da quel giorno sono diventato un
appassionato estimatore di formaggio di pecora. Conservo gelosamente una serie
di canestrelli di paglia che si usavano come formine, mi sono sempre
riproposto di provare a fare il formaggio ma non ho mai cominciato e purtroppo dubito
che lo farò.
Ripreso il lavoro, il sole aveva riscaldato l’aria e il
bianco che ricopriva l’erba era sparito, m’intrattenevo con Rosina che, libera
da ogni legaccio, aveva raggiunto un albero di fichi il quale era cresciuto
spontaneo e sceglieva i fichi migliori. Ogni tanto mi guardava e con i suoi
occhi sembrava che mi prendesse in giro. Aveva uno sguardo sorridente e
appagato. Mio nonno intanto, vedendomi incuriosito, cominciò a parlarmi di una
parabola del vangelo che parlava di un fico, di un padrone che voleva tagliarlo
e di un servo che lo invitò a non farlo. All’epoca mi sembrò una favola poi
crescendo ho riflettuto molto su quella parabola.
Quando il sole si era fatto caldo, si senti il suono di campane.
Mi domandai come facesse ad arrivare fino a noi quel suono, giacché eravamo
così lontani dal centro abitato, ma la curiosità svanì, dispersa nel profumo
che proveniva da un tegame di terracotta che conteneva il cacioeovo che mia nonna aveva preparato la sera prima. Il
rito dell’apertura dei fagotti, il movimento delle dita atte a sciogliere i
nodi della tovaglietta sapientemente usata per proteggere i tegami e il profumo
del loro contenuto, mi ha sempre affascinato.
Mangiammo veloce poiché si doveva completare il lavoro e il
sole correva veloce. Mio nonno era contento per l’interesse che mostravo a
guardarlo ma era ancora più contento se, disinteressandomi di lui, mi dedicavo
ad altro. “La vita del contadino è una
vitaccia; Fatica, sudore e nessun rispetto”, ripeteva spesso, ma in quella
occasione ero troppo piccolo per capire perché mi distraesse se mostravo
interesse per li suo lavoro. Pensavo che mi ritenesse incapace e mi dispiaceva.
Passarono ancora un paio d’ore. “Dai che è tardi! Dobbiamo
riavviarci”. “Ma, Nonno Pa’, è ancora presto!”. “Qui il sole si copre dietro la
collina di fronte e fa notte subito. Noi dobbiamo tornare a casa. I Vecchi
dormivano qui ma noi …”
Prima di ripartire, aprì un fazzoletto molto colorato di
quelli che si usano per asciugare il sudore. Dentro c’erano dei semi. Mi disse
che erano semi di sorbo e aggiunse: “piantali. Ci vorranno anni ma vedrai che
ogni volta che passerai da queste parti, guardando la pianta che crescerà, ti
ricorderai di questa giornata.
Completata l’operazione, dopo una scrollata alla terra
rimasta sulle ginocchia, accompagnata dalle prime ombre della sera la vettura,
guidata con maestria da mio nonno, s’incamminò lentamente verso casa.
All’imbrunire arrivammo alle scalette di zia Rachele. Mio
nonno scese da sella dicendomi: “ce la fai a guidarlo da solo e raggiungere la
casa?” Io entusiasta risposi di si. Lui si fidò.
Vincenzo e Nicola, due
monelli della contrada detta “Li Filanzire”, stavano giocando, lanciandosi in
discesa, a forte velocità, con la loro carrozzella di legno montata su ruote a
sfera ma vedendomi arrivare e conoscendo l’abitudine dell’asino, scavarono una
buchetta sulla strada e puntualmente la vettura si fermò. I due ridevano ma io,
senza scompormi, richiusi il buco. “Rosina andiamo!” esclamai. L’asino riprese
il cammino e, col muso rivolto ai due ragazzacci, cominciò a ragliare. Sembrava
che li rimproverasse. I due si arresero e si dedicarono ad altro.
Arrivati a casa fui accolto dal solito sorriso di mia nonna
che, avvertita dal ragliare di Rosina era già pronta con una grande tinozza
piena d’acqua … il pieno per la vettura.
La serata cominciava a essere umida e le abitanti della
strada avevano già riposto i lavori di merletto e i lavori a maglia che nel
pomeriggio avevano realizzato, sedute davanti all’uscio delle loro case,
chiacchierando tra loro e godendo dei raggi del sole che fino a quell’ora aveva
riempito la strada. Da via Vesuvio allora si vedeva il mare e mentre l’asino
beveva, io fissavo quell’immensa distesa di acqua che, nonostante fosse
autunno, mi attraeva.
Da quella visione mi distraevano unicamente le domande di
nonna Carmela sul come era andata la giornata. In quella occasione glie ne feci
io una: “ma come fa Nonno Paolo a conoscere tutte le storie che racconta?”
Quando tornava zio Paolo Barone dai suoi viaggi – rispose mia
nonna – passavano tanto tempo assieme, a volte nottate intere, seduti sugli
scalini della chiesa della Madonna delle Grazie a raccontarsi storie; a volte
si fermavano anche i passanti ad ascoltare. Ora nonno coglie ogni occasione per
raccontare a te quelle storie.
Solo ai tempi del liceo capii cosa leggesse zio Paolo Barone,
imbarcato sulle navi tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento,
durante le sue crociere commerciali, nientemeno che fino in Corea e in
Giappone. L’ultimo libro che lesse fu: Paradise Lost di John Milton.
Oltre a questo testo conservava sotto il suo letto, centinaia
di libri in diverse lingue. Questa collezione resistette alla sua morte ma non
a quella di sua moglie, zia Rachele, quella delle scalette. I libri e tanti
ricordi di una vita passata navigando nel mondo furono bruciati perché un prete
aveva “invitato” a non leggere quelle opere poiché erano frutto del diavolo e
portavano al peccato. Io all’epoca non c’ero né avrei potuto fare nulla per
salvare qualcosa. Come avrei potuto vincere contro quel tipo d’ignoranza?
Piano piano, Filomena, Grazia, Carmela, Concetta, Lidia, Spina
… ci hanno lasciato e nessuno le ha rimpiazzate più in quella strada. Un
palazzo costruito di recente, con la sua ombra rende tutto buio, dalla strada
non si vede più il mare e nemmeno dai balconcini delle piccole case. Via
Vesuvio, un “Paradise Lost” che niente ha a che vedere con quello di John
Milton ma che a me, ogni volta che scivolo in quel ricordo, pare una veggenza.
Da molti anni anche l’uliveto è rimasto abbandonato. La vita
moderna poco si adatta alla fatica e al sudore. I rovi hanno avvolto e coperto gli
antichi alberi di olivo; i vicini passano negli spazi praticabili con i loro
mezzi senza rispetto per la proprietà altrui; la fauna selvaggia si è
appropriata del luogo e quest’ultima è la cosa che mi dispiace di meno.
Alcuni giorni addietro, la nostalgia mi ha invitato a passare
da quelle parti e con la mia attuale vettura. Con questa per raggiungere
l’uliveto bastano pochi minuti non ore come all’epoca, altro che Rosina! E poi,
la strada è ora è asfaltata e ha un nome segnalato da un cartello: Via
Vilignina.
Ho visto il sorbo. Mi è apparso gigantesco. Gigantesco come
la montagna di storie, di ricordi, di tradizioni, di esperienze, di cultura, di
persone che in sessanta anni abbiamo completamente cancellato. Mi è tornata in
mente “quella giornata”. Ho pianto.