Una piccola cameretta con accesso da Corso Plebiscito
tinteggiata di un vago colore verdino. Una mensola con un barattolo contenente
due enormi granchi, che da noi si chiamano pelosi, sotto spirito. Di fianco a
questo barattolo c’erano una cornice con la foto e l’autografo di Gianni Rivera
e, attaccato al muro, lo stemma del Milan. Queste furono le cose che notai,
entrando per la prima volta nella bottega di un barbiere. Fino a quel giorno il
barbiere veniva a casa mia. Era un tipo dai capelli rossi che mi metteva seduto
su una seggiolina posta su un tavolo e, mentre mi tagliava i capelli, mi
raccontava le favole.
Finalmente mia madre ritenne che ormai fossi cresciuto
abbastanza da recarmi io dal barbiere e zio Paolo si offrì di accompagnarmi.
Per giungere da “lui” da Corso Garibaldi, si scendevano le scalette di
“Cicilelle” e, attraversato vico storto del passero, si salivano quelle di
Angiolina. Giunti in una piazzetta, attraverso un vicoletto stretto, si usciva
su corso Plebiscito. A sinistra “Lu Furnarille”, di fronte il maestoso palazzo
Ciccarone, a destra la barberia. Fuori da questa era sempre parcheggiata una “moto
a Volkswagen”, cosi detta perché aveva il parafango anteriore che copriva la
ruota fino alla metà di questa. Era la moto del barbiere.
Le chiacchiere ad alta voce sulla Pro Vasto, sul campionato
di calcio, sulla passatella al bar Nord o nelle varie cantine della zona,
assieme ad altre amenità, facevano rimbombare il piccolo ambiente. A lavorare
erano in tre: il titolare, il padre del titolare e Fernando, il ragazzo di
bottega. Dopo breve attesa mi sedettero su un cavalluccio di metallo argentato
con la seduta di similpelle verdone e mi avvolsero in una tovaglia che mi
lasciava libera solo la testa.
“Alla Umberto?” Chiese il padre del titolare a mio zio.
“Certo, alla Umberto, e faglieli bene altrimenti chi la vuole sentire sua
madre!”. Cominciai a sentire il movimento e il tocco di forbici e pettine ma
soprattutto lo “gnikgnic” della macchietta sul collo, dietro le orecchie e
sulle basette. Questa sensazione ormai non si prova più giacché quella
macchinetta è stata sostituita da altra elettrica che emette un rumore assai
diverso. Sono cambiati anche i rasoi e nemmeno si usa più quella fascia di
cuoio appesa al muro da cui scaturiva quel veloce “ciaff ciaf” mentre il
barbiere affilava il rasoio su di essa.
In quella stanzetta per la prima volta il rasoio passò sulla
mia faccia.
“Dai tagliagli quei brutti peli sotto il naso” disse un
giorno mio zio al “barbiere” e quest’ultimo mi chiese: “sei sicuro? Poi dovrai
raderti sempre!”. Io mi sentii grande e acconsentii. Mi viene da sorridere perché
ancora adesso mi taglio di rado la barba.
Il tempo passava, l’amministrazione comunale di allora decise
di allargare il vicoletto che conduceva a Piazzetta d’Amante a scapito della
Bottega del Barbiere che fu abbattuta. Il barbiere si trasferì in via Crispi,
poco più sopra del negozio di zia “trisina a fore la porte”, verso il Belvedere
Romani. Qui il Salone, finalmente si poteva chiamare così, era luminoso e ben
arredato. Sul fondo spiccava un riquadro realizzato con carta da parati che
riproduceva geroglifici egizi e davanti a questo un “moderno” divanetto rosso. Poltroncine
nuove, attrezzature nuove, non ho memoria se ci fosse ancora la sedia a
cavalluccio, già da allora era un ricordo, ma c’era ancora l’angolino dedicato
ai Pelosi e al Milan. Non c’erano più i pacchi di schedine del Totocalcio, che
si usavano nella vecchia bottega per pulire i rasoi dalla schiuma da barba.
Tutto più moderno, tutto più funzionale.
“Tradii” quel luogo per colpa di un torneo di calcio: il
famoso trofeo barbieri. Il mio salone non partecipava ed io per entrare in una squadra
fui “costretto” a farmi “servire” in un altro salone. Ricordo ancora Fernando
che sugli spalti, vedendomi, indicava al suo “principale”, rigorosamente in
dialetto: “Elle vì addò stà, elle vì! Joche 'nghi la squadre di LT”.
Partii per l’università e quando tornavo frequentavo gli “acconciatori”
(all’epoca cominciavano a chiamarsi così) dove capitava.
Tornai in quel salone, che nel frattempo si era ancora
trasferito, questa volta di fianco a “Portanova”, per accompagnare mio zio ormai molto
malato. Lui si che non aveva mai tradito quel suo amico barbiere, quel suo
unico “vero” amico si chiamava Ninnì.
Chiedo scusa a chi mi rimprovererà di aver raccontato una mia
storia invece di quella Ninnì, ma lui assieme a mio zio sono un pezzo del mio
cuore e come si fa a staccare un pezzo di cuore senza esserne protagonista?
1 commento:
Da maurizio Ciccarone ricevo e pubblico a commento.
Ricordo bene la bottega di Ninnì che divenne il nostro barbiere dopo che Cesario Vinci (cell scacazz) trasformo in bar il suo salone (bar Roma). La barberia si trovava proprio di fronte a casa nostra ed i locali erano, come le camere sovrastanti, di nostra proprietà. Oltre che di pallone e pelosi si parlava ogni tanto di politica; erano comunisti convinti. L zio fu per varie volte consigliere comunale del PCI e poi del partito marxista-leninista. Il titolare all'inizio era il padre. Per alcuni anni, quando era mio padre a doversi tagliare i capelli, era lui a venire a casa nostra. Riprese tale usanza quando papà negli ultimi anni usciva di rado di casa. Ricordo quando con Vincenzo Ferrara che abitava proprio sopra alla barberia provavano facevano le prove per le serenate a qualche ragazza, mi pare suonasse il mandolino. Oltre alle foto di Rivera c'erano appese alla parete le foto di Jack Zimarino che era il suo modello per mostrare le varie sue acconciature.
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