Certo è che le polemiche sul trailer del film di De Sica mi hanno ancora più convinto che i social ci distorcono il cervello.
venerdì 9 dicembre 2022
De Sica, il vino, il web e i permalosi.
mercoledì 30 novembre 2022
Armocromia ed altre difficili parole.
Se solo si provassero ad applicare i principi della armocromia agli interventi che si stanno
eseguendo sul territorio della nostra città, ci si renderebbe conto di quanto
lo stiamo maltrattando in nome di uno sviluppo futuro. Certo è difficile
immaginare e proporre una corretta pianificazione e programmazione,
specialmente se schiacciati da veto-players
da una parte e Short terminism
dall’altra. Se almeno in mezzo a questi fossero ascoltate teste pensanti e non
i soliti raccomandati, la massa, apparentemente afasica, capirebbe e si farebbe un’opinione giustificata su quello
che si vuole porre in essere, quindi potrebbe manifestare la sua opinione.
Non mi si accusi di preterizione.
Gli aranceti e gli uliveti che ricoprivano la collina dalla
Marina al Vasto sono stati sostituiti da edifici di ogni foggia e dimensione mentre presto ci si accapiglierà per un
impianto eolico che disturberà, secondo alcuni, la visuale dell’ azzurro mare.
Ci si distrae per alcune difformità, definite aggressivamente abusi, magari in
un parco che finalmente stava prendendo una qualità degna del luogo, senza
rendersi conto che affacciandosi dai belvedere cittadini, a causa della
vegetazione incolta, non si vede più il panorama e piuttosto ci si schifa da
ogni tipo d’immondizia lasciata in loco dai fruitori delle bellezze cittadine.
Ma l’armocromia,
una disciplina che semplifica la vita e permette di sottolineare la propria
bellezza, forse non è applicabile alla “meraviglia” della città poiché chi
dovrebbe adottare questa disciplina la applica prima su di se guardandosi allo
specchio. Questo soggetto, infatti, ritenendosi
bello, senza comparazioni o adeguate consulenze, e con una pletora di benevoli
compagni che assecondano le scelte come spesso i mariti annoiati fanno pur di
non spendere tempo o perché non sono in grado di dare giudizi, applica lo
stesso criterio sul paesaggio e sull’uso di questo, non accorgendosi che il suo
è un giudizio personale è la scelta è peggiorativa dello Status Quo.
Andrebbe studiato con calma l’ambiente e valutate con
attenzione le eventuali scelte. Purtroppo lo Short terminism vuole risolvere al più presto la questione (le
elezioni sono sempre dietro l’angolo e la speculazione deve produrre
rapidamente) e i veto-players che,
pur di fermare il cambiamento, non si accorgono di fare il gioco dei primi. Si
ottiene così un qualcosa di ibrido che quasi sempre è peggio dello Status Quo. Vedi Casarza.
Chi ricorda Casarza prima dell’eliminazione della ferrovia e
soprattutto prima della realizzazione di un comodo ma orrendo parcheggio? Era
un Paradiso. Ora è un posto come un altro.
Si potrebbe utilizzare l’armocromia
anche per la toponomastica? Io penso di si, se democraticamente si utilizzasse
la maniera giusta. Chiudete gli occhi e immaginate La Canale o Vignola o San
Nicola. Che colori vedete? Ora chiudeteli e immaginate Parco San Benedetto … è
la stessa cosa?
La toponomastica è una cosa seria poiché questa materia
racchiude in se storia e civiltà. Anche con riferimento a questa bisognerebbe
avere tanta cultura. Cultura è una parola che nasce da “coltivazione e cura” e
non dall’improvvisazione del momento. Invece … ma di questo parleremo in altre
occasioni.
PS Il gabbiano in foto, non sa che bevendo quell'acqua (dolce) potrebbe morire.
mercoledì 16 novembre 2022
Ninnì
Una piccola cameretta con accesso da Corso Plebiscito
tinteggiata di un vago colore verdino. Una mensola con un barattolo contenente
due enormi granchi, che da noi si chiamano pelosi, sotto spirito. Di fianco a
questo barattolo c’erano una cornice con la foto e l’autografo di Gianni Rivera
e, attaccato al muro, lo stemma del Milan. Queste furono le cose che notai,
entrando per la prima volta nella bottega di un barbiere. Fino a quel giorno il
barbiere veniva a casa mia. Era un tipo dai capelli rossi che mi metteva seduto
su una seggiolina posta su un tavolo e, mentre mi tagliava i capelli, mi
raccontava le favole.
Finalmente mia madre ritenne che ormai fossi cresciuto
abbastanza da recarmi io dal barbiere e zio Paolo si offrì di accompagnarmi.
Per giungere da “lui” da Corso Garibaldi, si scendevano le scalette di
“Cicilelle” e, attraversato vico storto del passero, si salivano quelle di
Angiolina. Giunti in una piazzetta, attraverso un vicoletto stretto, si usciva
su corso Plebiscito. A sinistra “Lu Furnarille”, di fronte il maestoso palazzo
Ciccarone, a destra la barberia. Fuori da questa era sempre parcheggiata una “moto
a Volkswagen”, cosi detta perché aveva il parafango anteriore che copriva la
ruota fino alla metà di questa. Era la moto del barbiere.
Le chiacchiere ad alta voce sulla Pro Vasto, sul campionato
di calcio, sulla passatella al bar Nord o nelle varie cantine della zona,
assieme ad altre amenità, facevano rimbombare il piccolo ambiente. A lavorare
erano in tre: il titolare, il padre del titolare e Fernando, il ragazzo di
bottega. Dopo breve attesa mi sedettero su un cavalluccio di metallo argentato
con la seduta di similpelle verdone e mi avvolsero in una tovaglia che mi
lasciava libera solo la testa.
“Alla Umberto?” Chiese il padre del titolare a mio zio.
“Certo, alla Umberto, e faglieli bene altrimenti chi la vuole sentire sua
madre!”. Cominciai a sentire il movimento e il tocco di forbici e pettine ma
soprattutto lo “gnikgnic” della macchietta sul collo, dietro le orecchie e
sulle basette. Questa sensazione ormai non si prova più giacché quella
macchinetta è stata sostituita da altra elettrica che emette un rumore assai
diverso. Sono cambiati anche i rasoi e nemmeno si usa più quella fascia di
cuoio appesa al muro da cui scaturiva quel veloce “ciaff ciaf” mentre il
barbiere affilava il rasoio su di essa.
In quella stanzetta per la prima volta il rasoio passò sulla
mia faccia.
“Dai tagliagli quei brutti peli sotto il naso” disse un
giorno mio zio al “barbiere” e quest’ultimo mi chiese: “sei sicuro? Poi dovrai
raderti sempre!”. Io mi sentii grande e acconsentii. Mi viene da sorridere perché
ancora adesso mi taglio di rado la barba.
Il tempo passava, l’amministrazione comunale di allora decise
di allargare il vicoletto che conduceva a Piazzetta d’Amante a scapito della
Bottega del Barbiere che fu abbattuta. Il barbiere si trasferì in via Crispi,
poco più sopra del negozio di zia “trisina a fore la porte”, verso il Belvedere
Romani. Qui il Salone, finalmente si poteva chiamare così, era luminoso e ben
arredato. Sul fondo spiccava un riquadro realizzato con carta da parati che
riproduceva geroglifici egizi e davanti a questo un “moderno” divanetto rosso. Poltroncine
nuove, attrezzature nuove, non ho memoria se ci fosse ancora la sedia a
cavalluccio, già da allora era un ricordo, ma c’era ancora l’angolino dedicato
ai Pelosi e al Milan. Non c’erano più i pacchi di schedine del Totocalcio, che
si usavano nella vecchia bottega per pulire i rasoi dalla schiuma da barba.
Tutto più moderno, tutto più funzionale.
“Tradii” quel luogo per colpa di un torneo di calcio: il
famoso trofeo barbieri. Il mio salone non partecipava ed io per entrare in una squadra
fui “costretto” a farmi “servire” in un altro salone. Ricordo ancora Fernando
che sugli spalti, vedendomi, indicava al suo “principale”, rigorosamente in
dialetto: “Elle vì addò stà, elle vì! Joche 'nghi la squadre di LT”.
Partii per l’università e quando tornavo frequentavo gli “acconciatori”
(all’epoca cominciavano a chiamarsi così) dove capitava.
Tornai in quel salone, che nel frattempo si era ancora
trasferito, questa volta di fianco a “Portanova”, per accompagnare mio zio ormai molto
malato. Lui si che non aveva mai tradito quel suo amico barbiere, quel suo
unico “vero” amico si chiamava Ninnì.
Chiedo scusa a chi mi rimprovererà di aver raccontato una mia
storia invece di quella Ninnì, ma lui assieme a mio zio sono un pezzo del mio
cuore e come si fa a staccare un pezzo di cuore senza esserne protagonista?
martedì 8 novembre 2022
Alla luce del poi ... che scemo!
venerdì 4 novembre 2022
A Gabriele Rossetti il busto al Pincio ... il banchetto agli invitati.
lunedì 31 ottobre 2022
Il ricordo di chi non c'è più
La Signorina Ester Stella, parafrasando la vecchia battuta, non trova il suo nome tra i defunti.
E' una vecchia foto, dovrei dire vintage o, meglio ancora, antica. Da quando ha chiuso il suo negozio in Corso De Parma non ho più avuto sue notizie ma continuo a conservare questa foto perchè della Signorina ho un ricordo incancellabile: è stato l'ultimo baluardo di quella Vasto denominata l'Atene degli Abruzzi.
In questi giorni in cui in tanti si recano al cimitero, anch'io lo faccio (ognuno ll'adda fa' chesta crianza, ognuno adda tené chistu penziero) ma non solo per adornare di fiori il loculo marmoreo dei parenti e aimè di tanti amici e conoscenti.
Ci vado a rivedere anche le tombe dei "Signori" che, pensando di fare cose buone, hanno dedicato la loro vita alla grandezza della Città del Vasto.
Dovrei farne l'elenco ma cosa servirebbe?
Non sento rumori di chi si rivolta nella tomba forse perchè anche "Loro" hanno perso la speranza "ultima Dea" e si sono tristemente rilassati nel sonno eterno, accettando ... la sconfitta.
giovedì 20 ottobre 2022
Ci chiamavamo rigorosamente per cognome ...
Un'epoca in cui ci chiamavamo rigorosamente per cognome, in un luogo che trasudava di storia.
Mi fermo, altrimenti, preso dalla nostalgia, comincerei a parlare della storia di "quell'Istituto" frequentato da "nomi" importanti che a partire dai figli di Edda e Galeazzo fino al Premio Nobel Giorgio Parisi e poi ancora ...
... però se vogliamo parlare delle zie di Negrini che venivano a prenderlo il sabato dal vicino Piper, delle minigonne di Marina Ripa di Meana (all'epoca non si chiamava così), delle "donnine allegre" di via Taro, dei tramonti dietro il Cupolone ammirati dall'abbaino della mia camera, delle partite a ping pong con Roberto Giontella, degli scarpini di Guidi sul prato di Valle Giulia, delle ripetizioni di matematica assieme Giovanni Maucione e di tanti "nomi" e di tanto altro, si può fare.
martedì 4 ottobre 2022
Anche Sua Eccellenza Bruno Forte si è accorto che ...
Vasto città "pulita" non c'è che dire. Mi fermo altrimenti mi toccherà rimarcare che nel centro storico si puliscono le strade solo se in esse si trovano le case di assessori o ... mi fermo, mi fermo:
lunedì 3 ottobre 2022
giovedì 22 settembre 2022
Il sorbo di Salamastra
La vettura saliva le scalette di Zia Rachele, stando molto
attenta a dove metteva i piedi. Se trovava un buco, di qualsiasi dimensione
fosse, si fermava finche nonno Paolo non lo riempiva. Aveva molta cura di se la
vettura.
Una mattina di fine ottobre, ancora insonnolito, nonno Paolo
mi caricò sul dorso della vettura e lentamente si incammino con essa verso
contrada Salamastra, per raggiungere l’uliveto di famiglia. Questo era un posto
speciale per la qualità dell’olio. Olio che si sarebbe ottenuto dalla mistura
di olive, raccolte dalle diverse varietà di piante, sapientemente interrate nei
secoli precedenti e ancora curate dai miei nonni con pazienza e memoria,
proprio per ottenere un preciso e unico sapore. “Quass’è l’uje di Stobbene. S’aricanosce!” Avrebbero detto al
frantoio e mio nonno se n’aripriave.
Erano da poco passate le quattro, era ancora notte e una
fitta foschia ci avvolgeva. Mi distesi tra la sella e i baonzi e mi
riaddormentai cullato dall’ancheggiare e dal lento scalpito degli zoccoli di
Rosina.
Rosina era l’affettuoso nome che mio nonno aveva dato alla
sua asina. In paese gli asini venivano definiti vetture o peggio, con
disprezzo, ciucci. Mio nonno invece riteneva il suo animale come una compagna
di lavoro e, se vogliamo, anche di viaggio nella vita. Non era raro sentirlo
parlare con Rosina di storia o filosofia, dei “drammi” da Mario e Silla fino a
Cadorna passando per Rosmini o addirittura Lombroso. E se qualcuno lo sfotteva
dicendogli: “che ffì’, pèrle ‘nghi ll’asene?” lui fieramente rispondeva: “almene àsse mmi’ sta à ssendè! Ti ni’mmi’ sìnde e ni’mmi’ ‘ndinde”.
Mi svegliai che albeggiava. Intorno, l’erba autunnale era
coperta da un qualcosa di bianco, simile a grosse ragnatele. Dicevano fosse “la
manna”, ma io non lo so, per certi versi mi faceva impressione. Non scesi a
terra fino all’arrivo.
Raggiungemmo il luogo e già dopo un primo sguardo rivolto
agli alberi, sul volto di mio nonno si accese un ampio sorriso. Cominciò il suo
lavoro canticchiando canzoncine militari, di quelle che si cantavano nelle
caserme, che lui aveva imparato durante i suoi due anni di leva a Palermo.
Perfino era stato Caporale e se ne vantava. “L’unico periodo in cui sono stato
rispettato”, diceva, “fu durante il servizio militare a Palermo”. Qui
nonostante l’età, rimango sempre Pauluccio di Stobbene.
Intanto le ore passavano. Arrivati intorno alle dieci del
mattino, almeno così diceva lui regolandosi col sole, decise che si doveva fare
colazione. Aprì un fagottino con pane, formaggio, salame acqua e vino e preparò
dei panini.
Avevo diffidenza a mangiare il formaggio perché avevo visto
mia nonna mungere una pecora, con la testa, protetta da un grezzo foulard,
appoggiata al sedere di questa e gli spruzzi di latte che riempivano un secchio
di alluminio. Però, sarà stata la fame, da quel giorno sono diventato un
appassionato estimatore di formaggio di pecora. Conservo gelosamente una serie
di canestrelli di paglia che si usavano come formine, mi sono sempre
riproposto di provare a fare il formaggio ma non ho mai cominciato e purtroppo dubito
che lo farò.
Ripreso il lavoro, il sole aveva riscaldato l’aria e il
bianco che ricopriva l’erba era sparito, m’intrattenevo con Rosina che, libera
da ogni legaccio, aveva raggiunto un albero di fichi il quale era cresciuto
spontaneo e sceglieva i fichi migliori. Ogni tanto mi guardava e con i suoi
occhi sembrava che mi prendesse in giro. Aveva uno sguardo sorridente e
appagato. Mio nonno intanto, vedendomi incuriosito, cominciò a parlarmi di una
parabola del vangelo che parlava di un fico, di un padrone che voleva tagliarlo
e di un servo che lo invitò a non farlo. All’epoca mi sembrò una favola poi
crescendo ho riflettuto molto su quella parabola.
Quando il sole si era fatto caldo, si senti il suono di campane.
Mi domandai come facesse ad arrivare fino a noi quel suono, giacché eravamo
così lontani dal centro abitato, ma la curiosità svanì, dispersa nel profumo
che proveniva da un tegame di terracotta che conteneva il cacioeovo che mia nonna aveva preparato la sera prima. Il
rito dell’apertura dei fagotti, il movimento delle dita atte a sciogliere i
nodi della tovaglietta sapientemente usata per proteggere i tegami e il profumo
del loro contenuto, mi ha sempre affascinato.
Mangiammo veloce poiché si doveva completare il lavoro e il
sole correva veloce. Mio nonno era contento per l’interesse che mostravo a
guardarlo ma era ancora più contento se, disinteressandomi di lui, mi dedicavo
ad altro. “La vita del contadino è una
vitaccia; Fatica, sudore e nessun rispetto”, ripeteva spesso, ma in quella
occasione ero troppo piccolo per capire perché mi distraesse se mostravo
interesse per li suo lavoro. Pensavo che mi ritenesse incapace e mi dispiaceva.
Passarono ancora un paio d’ore. “Dai che è tardi! Dobbiamo
riavviarci”. “Ma, Nonno Pa’, è ancora presto!”. “Qui il sole si copre dietro la
collina di fronte e fa notte subito. Noi dobbiamo tornare a casa. I Vecchi
dormivano qui ma noi …”
Prima di ripartire, aprì un fazzoletto molto colorato di
quelli che si usano per asciugare il sudore. Dentro c’erano dei semi. Mi disse
che erano semi di sorbo e aggiunse: “piantali. Ci vorranno anni ma vedrai che
ogni volta che passerai da queste parti, guardando la pianta che crescerà, ti
ricorderai di questa giornata.
Completata l’operazione, dopo una scrollata alla terra
rimasta sulle ginocchia, accompagnata dalle prime ombre della sera la vettura,
guidata con maestria da mio nonno, s’incamminò lentamente verso casa.
All’imbrunire arrivammo alle scalette di zia Rachele. Mio
nonno scese da sella dicendomi: “ce la fai a guidarlo da solo e raggiungere la
casa?” Io entusiasta risposi di si. Lui si fidò.
Vincenzo e Nicola, due
monelli della contrada detta “Li Filanzire”, stavano giocando, lanciandosi in
discesa, a forte velocità, con la loro carrozzella di legno montata su ruote a
sfera ma vedendomi arrivare e conoscendo l’abitudine dell’asino, scavarono una
buchetta sulla strada e puntualmente la vettura si fermò. I due ridevano ma io,
senza scompormi, richiusi il buco. “Rosina andiamo!” esclamai. L’asino riprese
il cammino e, col muso rivolto ai due ragazzacci, cominciò a ragliare. Sembrava
che li rimproverasse. I due si arresero e si dedicarono ad altro.
Arrivati a casa fui accolto dal solito sorriso di mia nonna
che, avvertita dal ragliare di Rosina era già pronta con una grande tinozza
piena d’acqua … il pieno per la vettura.
La serata cominciava a essere umida e le abitanti della
strada avevano già riposto i lavori di merletto e i lavori a maglia che nel
pomeriggio avevano realizzato, sedute davanti all’uscio delle loro case,
chiacchierando tra loro e godendo dei raggi del sole che fino a quell’ora aveva
riempito la strada. Da via Vesuvio allora si vedeva il mare e mentre l’asino
beveva, io fissavo quell’immensa distesa di acqua che, nonostante fosse
autunno, mi attraeva.
Da quella visione mi distraevano unicamente le domande di
nonna Carmela sul come era andata la giornata. In quella occasione glie ne feci
io una: “ma come fa Nonno Paolo a conoscere tutte le storie che racconta?”
Quando tornava zio Paolo Barone dai suoi viaggi – rispose mia
nonna – passavano tanto tempo assieme, a volte nottate intere, seduti sugli
scalini della chiesa della Madonna delle Grazie a raccontarsi storie; a volte
si fermavano anche i passanti ad ascoltare. Ora nonno coglie ogni occasione per
raccontare a te quelle storie.
Solo ai tempi del liceo capii cosa leggesse zio Paolo Barone,
imbarcato sulle navi tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento,
durante le sue crociere commerciali, nientemeno che fino in Corea e in
Giappone. L’ultimo libro che lesse fu: Paradise Lost di John Milton.
Oltre a questo testo conservava sotto il suo letto, centinaia
di libri in diverse lingue. Questa collezione resistette alla sua morte ma non
a quella di sua moglie, zia Rachele, quella delle scalette. I libri e tanti
ricordi di una vita passata navigando nel mondo furono bruciati perché un prete
aveva “invitato” a non leggere quelle opere poiché erano frutto del diavolo e
portavano al peccato. Io all’epoca non c’ero né avrei potuto fare nulla per
salvare qualcosa. Come avrei potuto vincere contro quel tipo d’ignoranza?
Piano piano, Filomena, Grazia, Carmela, Concetta, Lidia, Spina
… ci hanno lasciato e nessuno le ha rimpiazzate più in quella strada. Un
palazzo costruito di recente, con la sua ombra rende tutto buio, dalla strada
non si vede più il mare e nemmeno dai balconcini delle piccole case. Via
Vesuvio, un “Paradise Lost” che niente ha a che vedere con quello di John
Milton ma che a me, ogni volta che scivolo in quel ricordo, pare una veggenza.
Da molti anni anche l’uliveto è rimasto abbandonato. La vita
moderna poco si adatta alla fatica e al sudore. I rovi hanno avvolto e coperto gli
antichi alberi di olivo; i vicini passano negli spazi praticabili con i loro
mezzi senza rispetto per la proprietà altrui; la fauna selvaggia si è
appropriata del luogo e quest’ultima è la cosa che mi dispiace di meno.
Alcuni giorni addietro, la nostalgia mi ha invitato a passare
da quelle parti e con la mia attuale vettura. Con questa per raggiungere
l’uliveto bastano pochi minuti non ore come all’epoca, altro che Rosina! E poi,
la strada è ora è asfaltata e ha un nome segnalato da un cartello: Via
Vilignina.
Ho visto il sorbo. Mi è apparso gigantesco. Gigantesco come
la montagna di storie, di ricordi, di tradizioni, di esperienze, di cultura, di
persone che in sessanta anni abbiamo completamente cancellato. Mi è tornata in
mente “quella giornata”. Ho pianto.
martedì 12 aprile 2022
martedì 29 marzo 2022
giovedì 17 febbraio 2022
lunedì 31 gennaio 2022
La Vasto di Michele Monina
sabato 15 gennaio 2022
Da Variante uno a Variante 16
Non saprei dire esattamente da quando se ne discute, ma posso testimoniare che ho letto un documento di programmazione che contiene questo argomento e che portava la data del 2009; firmato dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e dal Presidente Regione Abruzzo, Gianni Chiodi. A sua volta il documento cita precedenti atti amministrativi risalenti al 2003 e 2006; questo del 2006 era stato presentato al Ministro Antonio Di Pietro.
Nessuno ha mai avuto dubbi sulla necessità di quest'opera; nessuno ha
tirato in ballo questioni paesaggistiche, ferite all'ecosistema, problemi di
espropri, attività agricole massacrate: tutti d'accordo a sostenere che ci
serve. E fingiamo di non sapere che una strada è portatrice di molti sconvolgimenti,
oppure lo sappiamo ma vogliamo credere che i vantaggi siano superiori agli
svantaggi.
Prima di ogni altra considerazione, mettiamo bene in chiaro che il
traffico tra Vasto e Vasto Marina non ha nulla a che spartire con il raddoppio:
è una questione a sè stante.
La motivazione più ricorrente è
che il raddoppio della SS16 devierà buona parte del traffico che oggi intasa la
tratta vastese. Quindi stiamo pensando di deviare un flusso in transito, non di
accumulo. Cioè stiamo dicendo che buona parte dei veicoli che oggi ci assillano
non si fermano da noi, ma vanno oltre, verso sud o viceversa, e che devono per
forza passare da noi perchè non hanno alternative. E questa alternativa la
offrirà proprio il raddoppio. E il traffico sulla autostrada come lo consideriamo?
Facciamo finta che non esista?
Il traffico da Vasto marina a marina di San Salvo, non è traffico di
transito, altrimenti proseguirebbe oltre questi due punti. E' invece traffico
stanziale, locale, di sosta, casa e lavoro, passeggiata in spiaggia, pizza al
fresco, casa al mare ... che non avrà nè motivo nè convenienza ad usare il
raddoppio. Tornando all'idraulica è come l'acqua che si accumula in un
serbatoio. Questo serbatoio è proprio l'area turistica, dalla Bagnante alla
marina di San Salvo; il traffico è come una massa di pesci che sguazza in un
acquario: si riduce per 10 mesi all'anno e si incrementa per il resto; ma
l'acquario è sempre delle stesse dimensioni. E il perchè di queste dimensioni
merita un discorso a parte.
Se assumiamo che il traffico verso Vasto sia VA e quello che prosegue
oltre sia VB, allora il raddoppio fungerebbe da tangenziale, ma giustificabile
solo nel caso che VB sia nettamente superiore a VA. Come dire che per 1 veicolo
che entra in Vasto, almeno 3 o 4 veicoli/camion devino sul raddoppio. Pensate
che questa sia l'attuale situazione? Esistono rilevamenti attendibili in tal
senso? Io credo di no; ci saranno solo ipotesi e tutte a sostegno del
raddoppio, ci si può scommettere. Il traffico verso sud o verso nord, ha già la
sua autostrada e con un traffico direi esiguo se paragonato a tratti più a
nord.
Per rendere verosimile questa esigenza di raddoppio, tra le altre
storielle, si continua ad illudersi che avremo un futuro dove il traffico
industriale e turistico esploderà? Queste erano le motivazione di 15, 20 anni fa; qualcuna si è avverata? Anzi,
abbiamo una comunità che ostacola ogni nuovo insediamento industriale,
motivando con la salvaguardia del nostro ecosistema eppoi finge di non sapere
quale scempio comporta una strada proprio a quell'ecosistema che si pretende di
difendere. Osservando le industrie nelle due aree, Punta Penna e San Salvo, vi
sembrano esplose negli ultimi 15 anni? E il turismo, vi sembra raddoppiato
nello stesso periodo? Notate che ci siano programmi dell'amministrazione che
vanno in questa direzione? O, al contrario, movimenti di opinione che bloccano
ogni nuovo insediamento?
Incremento del turismo. Ma qualcuno pensa quando parla? Per incrmentare
le presenze occorre creare nuovi posti letto, quindi altri alberghi, case
vacanza, parcheggi, aree di divertimento, strade interne; quindi altro traffico
stanziale, altro traffico commerciale interno, altri orti e uliveti sbancati,
ecc. ecc. ... e l'acquario è sempre
quello!!
Ma l'alternativa al raddoppio già c'è. Vediamolo.
Leggo che per il raddoppio si parla di circa 70 milioni, mentre per una
uscita A14 a San Lorenzo (Vasto Ovest) ne basterebbero 10.
Realizzare un nuovo casello a Vasto Ovest, sarebbe la decisione più
intelligente, più economica e meno invasiva, ed è la risposta al raddoppio che
tanto cerchiamo.
La tangenziale di Milano, come quelle di altre grandi città, ha dei
tratti gratuiti ed altri, per intervalli più lunghi, con pedaggio, proprio per
smaltire traffico in città. Proviamo a fare dei calcoli.
Supponiamo che si faccia una convenzione con il gestore A14 riconoscendo
1 euro per ogni veicolo che entri a Vasto Nord ed esca a Vasto Ovest o Vasto
Sud, e viceversa. Con quei 60 milioni risparmiati non facendo il raddoppio,
potremmo far transitare gratuitamente 60 milioni di veicoli. E supponendo ne
transitassero 10.000 al giorno, fanno 3.650.000 in un anno. Cioè quei 60
milioni pagherebbero il transito gratuito, Vasto Nord, Ovest, Sud e viceversa,
a 10.000 veicoli per 16 anni. Sembrano calcoli empirici, e lo sono, ma sono
quelli che si fanno quando si devono scegliere soluzioni ai problemi.
Tutto questo senza segare nessun albero o tagliare in due un orto.
Questo è solo un esempio indicativo di quali possano essere le alternative alla
realizzazione di una strada che comporta, da quello che si legge, addirittura
una sopraelevata o un tunnel.
Ma se osserviamo bene, il traffico che tanto ci preoccupa è quello lungo
il litorale dalla nostra marina a quella
di San Salvo. Aver costruito alberghi e residenze anche sul lato strada verso
l'interno, oltre a raddoppiare il transito dei residenti, ha creato le tante
occasioni di pericolo per gli attraversamenti. Se si fosse costruito solo sul
lato mare avremmo avuto metà del traffico residente e nessun pericolo di
attraversamento. Ma tant'è e dobbiamo prenderne atto.
Allora potremmo raddoppiare solo questo tratto, con un percorso che
passi all'interno delle campagne e oltre
la linea delle costruzioni esistenti, riservando invece l'attuale percorso solo
ai residenti e deviando sul raddoppio tutti gli altri, cioè tutti quelli che da
Vasto, devono andare a San Salvo o Termoli, per lavoro o altro. Eppoi ci sono
tutte quelle strade che usiamo poco perchè abitudinari con le più trafficate;
con parte di quei milioni potremmo ristrutturarle e renderle vere e proprie
alternative.