martedì 15 gennaio 2013

Eh! caro Don Decio. Se avessimo approfondito di Cartesio e di Aristotile.


Qualche tempo addietro il giornalista di Repubblica Giuseppe Caporale, in un intervista in merito all'Associazione Minetti, passata sull'Huffington Post e su Rete 8, si stupì che a breve tempo dalle elezioni un ex Assessore (IdV) non sapesse per chi votare. Se avessi avuto la cultura necessaria avrei probabilmente potuto rispondergli, con qualche piccola, impercettibile differenza, quanto riporto sotto.

Cortocircuito 
di Paolo Ercolani

Sempre più spesso capita che le persone, che siano studenti o elettori smarriti, si rivolgano a me per chiedermi a chi darò il voto in occasione delle vicine elezioni politiche. Magari con la speranza che proprio da me possa provenire un suggerimento minimamente illuminante. E sempre più spesso si manifesta tutta la mia difficoltà nello scorgere una tale luce interiore, con la conseguente incapacità di poter illuminare in tal senso alcuna persona.

I motivi per abbandonarsi a questo tipo di sconforto, che in termini razionali e non emotivi potremmo chiamare con Cartesio «epoché» (sospensione del giudizio), sono talmente tanti da non richiedere sforzo alcuno. Basti citare l’ultimo caso in ordine di apparizione: quello del presidente Monti che, dopo aver gridato ai quattro venti che non avrebbe preso posizione politica, che non si sarebbe mai e poi mai candidato, che era ora di farla finita con i partiti strutturati sulla personalità e sul nome (invece che sulla coerenza e realizzabilità di un programma), ha visto bene di smentirsi senza alcun apparente scrupolo, scendendo nettamente in campo per la leadership del Paese, schierandosi con le forze di centro in parte già esistenti, con una lista che porterà il suo nome in primo piano e, udite udite, dichiarando persino di voler modificare in meglio alcune misure centrali (vedi l’Imu) prese dal precedente governo, che era capitanato dallo stesso Monti quando ancora non aveva informato se stesso di voler fare ancora di più per l’amato popolo italiano.
Ora, tenendo conto che il professor Monti era stato chiamato a furor di popolo, e di banche, per salvare la patria agonizzante, a rigor di logica ci si potrebbe chiedere se non era l’uomo giusto ieri, quando voleva imporre una logica libero-mercatista il cui bilancio è stato disastroso, fatta eccezione per lo spread (i cui benefici non toccano in neppur minima parte le finanze delle classi medie e basse, per tutti gli altri versi massacrate); oppure non lo è oggi, visto che scende in campo per modificare l’operato del suo stesso governo che avrebbe dovuto nientemeno che salvare l’Italia dal tracollo economico. Se questo è o dovrebbe essere, come da più parti si sostiene, il politico più rappresentativo di una serietà e coerenza indispensabili per un Paese che le aveva perse, allora ci rendiamo conto dello sconforto che può cogliere chiunque si affacci alla finestra per ammirare il panorama della politica italiana.
Certo, Aristotele ci ha insegnato fin dai tempi antichi che la verità non è un’entità unica e indifferenziata, ma che essa si può dire in molteplici modi che vanno riconosciuti e valutati secondo il criterio della gradualità. Ecco, la gradualità: quella per cui un signore posato e dall’inglese fluente come Monti può certamente indossare la maglietta fina della serietà e coerenza, dal momento che si è trovato a sostituire un altro signore, che negli incontri internazionali non trovava divertimento migliore che quello di fare il gesto delle corna, durante le foto di gruppo dei capi di governo internazionali.
Serietà e coerenza che vengono comunicate, e quindi fissate a mo’ di certificazione incontrovertibile, da quello stesso circuito mediatico ufficiale che, eccettuate rare eccezioni, non ha mai alzato un dito o mosso una parola, per esempio in qualche editoriale dei Tg Rai, per dire: «Signor Presidente Berlusconi, il suo comportamento non è serio e danneggia l’immagine dell’Italia!».
Si tratta di una faccenda di non poco conto, visto che uno dei compiti fondanti dell’informazione è quello di vigilare su, ed eventualmente denunciare le, nefandezze compiute dal potere politico, fornendo ai lettori, ascoltatori e spettatori gli strumenti consoni a giudicare chi li rappresenta in parlamento e al governo, e non certamente quello di schierarsi secondo le convenienza di chi li appoggerà nella corsa alla poltrona più importante e remunerata.
In un caso (quello del Monti fatto assurgere a emblema della serietà), come nell’altro (quello del Berlusconi, e con lui troppi altri, di cui quasi nessun organo di informazione si è degnato di denunciare al popolo nefandezze e contraddizioni), emerge un ruolo dei mass media che è quello denunciato da Chomsky ed Herman nel 1988 (Manufactoring Consent, Pantheon Books, p. 207), laddove parlavano di «un’agenzia di manipolazione, indottrinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati». Senza dimenticare, per inciso, che i mass media americani si sono sempre rivelati molto più indipendenti dal potere e ficcanti dei nostri.
E qui credo che arriviamo al punto nodale della questione. Sì, perché ovviamente non ci si può limitare a constatare l’inadeguatezza della classe politica e giornalistica, esercizio che è stato fin troppo agevole per movimenti di protesta e oggi anche di cosiddetta (a torto) antipolitica, puntualmente poi finiti nello stesso pantano da cui non ci si può tener fuori senza un’elaborazione più in profondità di quello che ormai è diventato un habitus mentale e sociale.
Quello che indubbiamente può essere rilevato come un cortocircuito politico-mediatico in grado di paralizzare e alla fine incancrenire la società italiana, infatti, presenta una causa più profonda che afferisce all’essenza di ogni sistema paese. Una causa che si è voluta rimuovere per troppo tempo, fino a relegare il campo che la riguarda nella serie dei terreni abbandonati e inservibili. Sto parlando dell’etica, di quella «disposizione» che, stando sempre ad Aristotele, non è insegnabile (né quindi imparabile, cosa ancora più importante, su un libro), in quanto costrutto che si determina gradualmente all’interno del campo vasto e complesso costituito dalle passioni e relazioni sociali (Etica nicomachea, II, 1-4 e 5). L’etica, termine la cui etimologia richiama anche e non per caso il significato del «costume», la si acquisisce individualmente e collettivamente grazie all’esercizio di una vita ispirata anche e soprattutto all’ideale regolativo del «giusto», un criterio oggigiorno inevitabilmente sostituito dal monopolio del «bello», dell’«utile», dell’«egoismo sociale».
Può sembrare, e in effetti è sempre sembrato, che si tratti di aria fritta, di idealistiche elucubrazioni da filosofi astratti e avulsi dalla materialità del reale. Ma l’etica aristotelicamente intesa, costituisce un elemento assai centrale e fondante di ogni società, di cui alla stregua dell’aria e del tempo, ci si accorge soltanto quando viene a mancare in maniera irreparabile. Proprio ai giorni nostri, in questo clima da caduta dell’impero, capiamo quella che sembra un’assurda legge ferrea ed inesorabile (che conduce ogni uomo pubblico all’incoerenza e persino all’illegalità), soltanto se teniamo presente di averla volutamente abbandonata, e da molto tempo, rispetto alle pratiche di educazione, istruzione e formazione di quelle che di volta in volta sono state le giovanissime generazioni (non a caso il libro di Aristotele sull’etica era stato concepito a mo’ di insegnamento diretto da impartire a un giovane).
L’accettazione acritica delle logiche esclusivamente economiche, quelle stesse mai così ben rappresentate come da Monti, per cui l’utile, il profitto, la quantità, il numero e il successo sociale costituiscono l’unico vero metro di valutazione, ha condotto inevitabilmente a un tipo di società condannata a quella che potremmo chiamare «la legge ferrea dello scadimento etico».
Ecco che allora ci troviamo di fronte al vero grande elemento che permette di comprendere la totale assenza di punti di riferimento seri, credibili, e soprattutto coerenti: cioè quella sconfitta che ci siamo innanzitutto impartiti da soli, che è sconfitta dell’etica intesa come formazione di un individuo che, oltre alla giacca e cravatta, indossa l’abito interiore dell’etica, intesa come quella facoltà di agire tenendo presente l’ideale del giusto in maniera autonoma e ragionata, consapevole che il consesso umano regredisce, prima o dopo nella sua interezza (gruppo, società, nazione, mondo), se si lasciano prevalere le logiche impersonali dei numeri, della quantità, dell’egoismo (facoltà persino contro-natura, nella misura in cui rimuove il legame indissolubile che ci unisce in quanto individui se non altro della stessa specie, abitanti il medesimo pianeta ed esposti alla medesima e apparentemente tragica fine).
In questo, anche in questo emerge la differenza fra l’etica e un’altra facoltà di cui invece si è fin troppo abusato: la morale, troppo agevolmente intesa (e imposta) alla stregua di una dimensione in cui a dettare le regole, ovviamente sacre e sante, e quindi da accettare come una sorta di pacchetto chiuso e immodificabile dalla ragione umana, sono dei poteri forti che sovrastano, mercificano, umiliano la dignità stessa dell’individuo.
La distruzione dell’etica intesa nel senso che abbiamo ricordato, processo che ha origine lontane nel tempo, ha condotto al cortocircuito che non è soltanto politico-mediatico, ma prima ancora di cultura, di costume, di quell’abito strappato che è diventata l’«idea del giusto» a livello di sentire comune popolare (il popolo tutto).
A questo livello, è inutile nasconderselo, è difficilissimo e forse impossibile sperare di produrre dei cambiamenti positivi, perché il marcio è stato coltivato e si è radicato fin dalle radici dell’albero.
La soluzione, o le soluzioni, sono quindi difficili da trovare e soprattutto da applicare, ma certamente passano per una rivoluzione culturale nel senso stretto del termine, che innanzitutto preveda il coraggio di tornare a considerare la cultura civica e umanistica, la ricerca e l’elaborazione intellettuale, un pilastro portante di quell’edificio etico che dovrebbe essere ogni società. Tutto il contrario, mi sia consentito di dirlo, da quel manifesto di valori mercatistici, moralisticamente appiattiti sul dogma cattolico, e dimentichi della dignità individuale e sociale per i quali il presidente Monti ha ben visto di aggiungere anche il suo nome, alla lunga schiera di candidati al governo del paese, e che invece non sanno governare neppure la propria coerenza individuale.

1 commento:

maria ha detto...

E! E quindi?
Anche io opterei per un cambiamento totale.
Opterei per Grillo, ma solo per dare una rinfrescata all'acqua, per far si che non resti ancora stagnante...
Ma poi, esigerei un totale nuovo inizio... una reale e vera seconda repubblica, poichè questa nostra seconda, altro non è che la prima con l'aggiunta di un più che blando profumo...
Quindi, Monti che avrebbe dovuto fare ciò che io farei fare a Grillo, se ora si candida e dopo esser salito in politica, ora decide di scendere in campo come tutti gli altri, ovvio che mi arreca un pochino di fastidio. Poi che dire di tutti quei nuovi partiti nati che, chissà perchè, nascono tutti e sempre sotto votazioni, che altro non sono che un dispendio di voti e che nulla garantiranno al cambiamento di cui parlano e pretendono... boh: uno scoramento totale peggio di prima.
Però, sull'abuso della morale e sulla attuale trasformazione del concetto di etica, condivido pienamente...
"morale della favola": cosa risponderebbe, oggi, Paolo Ercolani sul chi votare?

Stavolta, sono stata più attenta: prima di cominciare a leggere, ho cercato il nome dell'autore.
Poi, vista la premessa, non potevo non notarlo.