In una tela di Nicola
Palizzi esposta al Piccolo circolo
garibaldino
Quella veduta di Vasto ritrovata
di Luigi
Murolo
Un
affocato meriggio estivo del 1853. La cinta urbica che riluce verso l’occaso e
le ombre lunghe proiettate verso l’oriente suggeriscono il senso di un giorno
ormai declinante. Il ritorno a cavallo del signore e della signora dalla passeggiata
al casino di campagna, la teoria dei domestici a piedi che li accompagna con la
governante che introduce al piccolo corteo, due contadine andiniere (con il significato di “aprifila”), un gruppo di codacchieri (con il valore semantico di
“serrafila”) animano il paesaggio umano disposto lungo il perimetro in muratura
di villa Genova. La moltitudine dislocata lungo la vianova del Largo del Castello che rientra nella città ormai priva
della Porta urbana segna in modo inequivocabile la prossimità dell’ormai
avvolgente sera. Sullo sfondo della tela, la skyline del mare congrega su di sé le tante coppie di barche a paro (appaiate) – le cosiddette
paranze – che attendono solo il
rientro nella proda per il riposo dei paroni
e dei pescatori. Sulla destra dell’olio, in campo lunghissimo, un prete
capitolare discute con un popolano (lontana eco tematica, forse, degli
acquerelli realizzati da Gioacchino Vassetta nel 1807 per la cosiddetta Platea Tambelli, un cabreo dell’omonima
famiglia baronale). Quasi non bastasse, in una lontananza ancora più remota,
donne di città danno mangime a galline che razzolano sul prato. Che cosa dire,
poi, dei due soggetti allocati sul rivellino esterno di Torre Bacchetta? (ma
più che di torre, dovremmo parlare di torri appaiate. Mai vista un’immagine di
questo tipo, tra l’altro non registrata nelle due antiche piante conosciute
della città). E dell’ombra che, a mo’ di shifter
didattico, segnala l’avvenuta
apertura dell’ingresso al largo di S. Chiara ricavato dallo sfondamento della
cinta muraria? Per la verità, le informazioni in nostro possesso non consentono
di discutere su tali argomenti. Mi sono limitato a svolgere solo alcune
considerazioni en passant sulla Veduta di Vasto, opera che Nicola
Palizzi realizza a 33 anni (essendo nato nel 1820), per la prima volta esposta
in città in questi giorni presso il Piccolo
Circolo Garibaldino, grazie all’interessamento di Paolo D’Adamo e alla
disponibilità del suo attuale proprietario, Stefano D’Adamo.
Certo, di fronte a quest’opera vien subito dato
di pensare all’altra di Nicola Palizzi sempre del 1853 dal titolo Chiesa di S. Giuseppe a Vasto (donata
alla Pinacoteca Civica di Vasto nel 1957 da Giovanni Castelli, ma oggi di fatto
irreperibile). Purtroppo di quella conosciamo solo una fotografia in B/N e,
dunque, non comparabile con l’originale di cui qui si parla. Si può solo
osservare che il 1853 è un anno che vede la presenza di Nicola in città. Non
solo. Ma che il dipinto sull’attuale concattedrale di S. Giuseppe definisce lo
stato del tempio prima dell’avvio dei lavori (con atto di notar Vincenzo
Marchesani del 21 aprile 1853) che avrebbero incorporato la Cappella della Confraternita della Carità e della morte
nel contesto della nuova struttura architettonica. Ignoro le ragioni della
committenza di questi due olii (sempre che vi siano stati committenti. A ogni
buon conto, risulta difficile poter pensare il contrario, non foss’altro perché
le pitture sono due – come già detto, realizzate sempre nello stesso periodo –
e, dunque, possibili elementi di un discorso più ampio sulla figurazione della
città). Fino a quel momento, l’unica rappresentazione cògnita di Vasto –
escludendo quella icnografica “a volo d’uccello” del 1793 e quelle di altri
eventuali cabrei – risulta il dipinto di Filippo Molino litografato per «Il
Poliorama pittoresco» riusato dal futuro arcidiacono Giacomo Tommasi nella Pianta di Vasto da lui stesso ridotta in
scala e litografata per accompagnare la Storia
di Vasto (1838-1841) del cugino Luigi Marchesani. E qui, di scorcio, va
ricordato che, a differenza di Molino (che pone il punto focale nell’incantato
giardino con dama di Villa Genova), Nicola Palizzi coglie l’angolo visuale
proprio dal casino di campagna del dr. Luigi Marchesani all’Aragona. Va da sé
che, in tale ambito, viene da escludere ogni riferimento alla Veduta di Vasto di Gabriele Smargiassi,
oggi conservata presso la Pinacoteca Civica della città. La piccola tela,
infatti, veniva forse realizzata a Londra nel 1831, «a memoria» (o sarebbe
meglio dire, su precedenti schizzi), e non de
visu, dall’ artista durante una pausa inglese nel suo lungo soggiorno
parigino (1827-1837) per farne omaggio a Gabriele Rossetti, l’illustre
conterraneo esule nella capitale britannica. L’olio rimaneva custodito da
William Michael Rossetti e dai suoi eredi fino al 1926, anno in cui Olivia
Rossetti Agresti se ne sarebbe privato per donarlo al comune natale del nonno.
Dunque, Nicola Palizzi non aveva avuto in nessun caso la possibilità di vederlo,
anche perché solo nel 1856 il pittore si sarebbe recato a Parigi presso il
fratello Giuseppe. Come si può notare, l’archetipo smargiassiano risulta
sostanzialmente estraneo alla costruzione iconologica della forma urbis. L’unica traditio restituibile è quella che vede
la sequenza Filippo Molino (1837), Nicola Palizzi (1853), Elia di Giacomo Leone
(1860). Ora, a proposito della tela di Smargiassi, torna utile soffermarsi su
di un fatto. La Rossetti Agresti la cede mentre comincia a intrattenere rapporti
amicali e epistolari con Ezra Pound, il grande autore dei Cantos che suggeriva ancora una volta l’interpretazione esoterica
di Dante (sull’argomento cfr. D. Tryphonopoulos, Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, Roma, Edizioni
Mediterranee, 1998). Così, se da un lato la Rossetti Agresti con la cessione
dell’ultima traccia del nonno presente nella sua casa spezzava fisicamente i legami con l’opera di
Gabriele, dall’altro dava avvio a un nuovo percorso ermeneutico che tornava a
rileggere sempre nella stessa chiave l’inattingibile mysterium della Comedìa.
Comedìa, si diceva. Ma nel caso
del dipinto di Nicola Palizzi, non divina, ma umana. Nei fatti, la comedìa umana di una città del Regno
delle Due Sicilie in una giornata qualsiasi di una torrida estate; la contaminatio, in un’unica tela, dei
diversi rapporti antropologico-sociali tra gli abitanti, suoi concittadini.
Nulla di più. Ma anche nulla di meno. E pare poco? E allora, di che cosa aveva bisogno l’artista
per dare profondità alla rappresentazione? Di una quinta scenica,
evidentemente; di una direttrice spaziale. Ecco allora la scoperta della cinta
muraria di Villa Genova. Un paramento di fabbrica che, proprio per il fatto
che, «dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», era in grado di indirizzare e
accompagnare l’occhio dell’osservatore verso il cuore della città. Ma che
strano; davvero singolare l’avventura di quel muro (che, grazie a quest’olio,
per la prima volta conosciamo nella sua interezza)! Un decennio, più tardi –
sempre in un’afosa giornata d’estate – sarebbe stato oggetto della fucilazione
di un gruppo di briganti, le cui grida strazianti e dolenti avrebbero turbato
per molti anni la coscienza dei cittadini. Con un passaggio importante e
significativo nella storia della sua breve aura:
l’avvertito movimento dalla «quiete» palizziana alla «fatal quïete»
risorgimentale che avrebbe per sempre infranto la serenità del luogo.
Devo a questo quadro il ritorno al fondo dell’attuale
via Guglielmo Pepe per ritrovare in qualche modo il senso di quel fascino
perduto. Speravo di rinvenire un frammento di quel muro: l’ho rinvenuto. Ma con
un risultato carico di grande malinconia: che in quel sito non si respirava più
alcun genius loci, ma la polvere
residua della sola pietra muta.
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