sabato 24 novembre 2012

“L’ajjonda” (l’aggiunta)



Quando mi mandavano a comprare il pane quasi sempre, per raggiungere il peso giusto, mi davano “l’ajjonda” (non so se si scrive così).
Il pane si vende a peso e il fornaio alla pagnotta o al filone quando non raggiungeva il chilogrammo  ne aggiungeva un'altra fetta per compensare e raggiungere il giusto peso. Mentre tornavo a casa quella fetta fragrante, morbida, profumata mi attraeva e non resistevo: la dovevo mangiare. A volte mi capitava di prendere il pane anche per mia nonna o per qualche zia e invece di darmi la differenza in forma di pane, zia Juccia de “Lu Furnarille” (Del Frà) mi dava una pizzetta (di quelle croccanti che si piegavano in due. Costavano allora 30 lire) oppure dei panini all’olio (costavano 10 lire) o anche dei biscotti di quelli che erano buoni sia col latte che con il vino.
Mi ero accorto che questi “bis-cotti” venivano cotti due volte e a me piacevano quando erano morbidi di prima cottura. Zia Juccia lo sapeva e me ne metteva sempre qualcuno da parte.
Andare dal fornaio era interessante. Vedevo il vecchio “titolare” col bastone e la moglie seduti al caldo a dare “consigli”, osservavo le massaie che portavano a cuocere batterie di tegami di dolci oppure conigli o altro tipo di carni che sulla fornacella o sulla “cucina economica” era difficile cuocere.
Ascoltavo rumori come quello dell’aprire e chiudere il forno o quello della pala in legno che serviva per infornare o sfornare. Un rumore particolare, che a me piaceva molto, era quello delle 500 lire d’argento che battevano sul piano di marmo per capire se erano autentiche.
Certo non ci sono più i forni di una volta! (oppure sono io che non riesco più a “gustare” certi momenti)
Potrei dilungarmi a lungo, magari raccontando di Gino, un mio compagno di classe alle elementari che, la mattina presto, andava a imparare il mestiere di fornaio. Alle otto poi veniva a scuola e, alle otto e un quarto, dormiva come un angioletto. La maestra capiva … anche noi capivamo.

A Vasto c’erano tanti forni - ancora si “leggono” strade come via del Forno Rosso oppure spazi come largo dei Quattro Forni - e c’erano anche i fornai con i loro strani nomi.
Prima ho citato “Lu Furnarille” in corso Plebiscito ma l’elenco è lungo. C’era “Zi Punille” (Troilo - Armeno) che aveva due forni. Uno in via San Francesco d’Assisi e uno in via Santa Maria (dove ora c’è Stanisci). Sempre in via Santa Maria c’era “Ciuffulone” o “Truffulone”(Martella). Scegliete voi. Più avanti, a piazza Santa Chiara, c’era “La Scimmia” (Monteferrante). A Sant’Anna, proprio di fianco all’ingresso della chiesa, c’era “Zia Jetta” (Molino). In via Canaccio c’erano “Paparille” (Monteferrante) e “Biacille” (Saraceni). In largo dei Quattro forni se ne ricordano due: “Saracone” (Molino) e “Panepane” (Suriani). Al “Giardinetto” c’era “Cappuccelle” (Tana). Ricordiamo poi “La Ferrarese” e Bosco in corso Garibaldi, Ciffolilli in corso Mazzini (mi dicono che era denominato “Zia Rusine” ma io non lo so), “Lischitille” (Di Risio) in Via Ciccarone. … E “Pucciarille” addò statteve?
Non chiedetemi di più … vado a farmi un panino.

Se avete vostri ricordi, volete fare precisazioni o correggere “errori ed omissioni” fate pure.

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