domenica 17 febbraio 2013

Qualche considerazione in più sulle dimissioni del Papa


Di Felice Monteferrante


Sulle dimissioni del Papa, (ma sarebbe meglio chiamarla abdicazione visto il suo ruolo di Monarca assoluto della Città del Vaticano) vaticanisti, giornalisti opinionisti di ogni genere e gente comune, hanno giustamente, voluto dire la loro nelle trasmissioni  televisive che si sono susseguite dopo la notizia della volontà del Santo Padre di dare le dimissioni il 28 febbraio, annunciate durante il Concistoro di lunedì scorso.
Così da “Otto e mezzo” a “Piazza pulita” allo “Speciale porta a porta” e nei vari T.G. si sono ricordati tutti gli ultimi scandali che hanno investito la Santa Sede: l’intero Vatileaks (dalle inchieste di Nuzzi, alla pedofilia, al caso Paolo Gabriele,alla corruzione e la lotta intestina tra i diversi Cardinali), l’annullamento della scomunica dei Lefebvriani o le dimissioni di Gotti Tedeschi  dallo I.O.R. (forse perché voleva fare applicare alla banca le normative antiriciclaggio così come vuole l’U.E). Da venerdì scorso presidente dello I.O.R. è il tedesco Ernest Von Freyberg.
Se non vogliamo anche dare la patente di profeta a Nanni Moretti queste appaiono solo congetture fantasiose e dietrologiche: lo stesso Pontefice, infatti, nel libro-intervista “Luce del mondo non escludeva la possibilità di dimissioni, previste, tra l’altro, dal Diritto Canonico.
Pochi però hanno affrontato il problema partendo da quello che avrebbe potuto essere la vera svolta della Chiesa Cattolica, cioè quel  Concilio Vaticano II (voluto da Papa Roncalli e conclusosi sotto il pontificato di Papa Montini) di cui lo stesso Joseph Ratzinger ne fu protagonista.
Degli unici interventi su questo tema ricordo solo quelli di  Massimo Cacciari, di Giuliano Ferrara, di Vito Mancuso e di pochi altri.
Già, quel Concilio che, dopo un avvio di svolte progressiste sul ruolo delle donne nella Chiesa, sul celibato dei preti e la morale sessuale, si concluse con una vittoria dei conservatori (come non ricordare il lungo silenzio sull’uccisione del Monsignor Romero).

Un altro punto importante di cui si  è discusso è quello dell’eccezionalità delle dimissioni di un Papa: infatti nella millenaria storia della Cristianità solo altre due volte era accaduto:la prima fu quella di Celestino V (vilipeso da Dante ed ammirato da Petrarca) la seconda quella di Gregorio XII quando, nel 1309, la sede papale fu spostata da Roma in Provenza.
Però, a mio modesto parere, la peculiarità di queste dimissioni risiedono nel fatto che, esse avvengono nel pieno della  Modernità cioè, nel pieno della “Civiltà della Tecnica”. Senza scomodare la filosofia di Nietzsche o Heidegger si possono menzionare le parole del filosofo Umberto Galimberti “se io tolgo la parola Dio dal mondo, il mondo neanche se ne accorge ma se tolgo la parola “tecnica” il mondo se ne accorge!” e sempre Galimberti nel suo ultimo libro "Una religione dal cielo vuoto" scritto con Vito Mancuso ricorda che «il cristianesimo ha desacralizzato il sacro, sopprimendo la sua ambivalenza e assegnando tutto il bene a Dio e tutto il male al suo avversario”. Tesi confutabili, che anch’io non condivido in pieno, perché penso che esistano ancora molti che conservino ancora lo stupore del Sacro e del Bello (Thauma) e nel loro quotidiano pratichino il Bene.
Sulla stessa falsariga di Galimberti si muove Marco Vannini sul “Manifesto” di cui riportiamo alcuni passi: “Il vero dramma del papa  riguarda una cosa davvero essenziale: una fede che ha perduto le sue fondamenta storiche. Ricordo che la fatica principale di Benedetto XVI in questi anni è stata la redazione di una vita di Gesù, di cui nel Natale scorso è uscito l'ultimo volume, quello dedicato all'infanzia di Gesù stesso. Molto significativamente l'opera è stata presentata come uno studio scientifico, di cui era autore il prof. Joseph Ratzinger, appunto, l'esperto di storia del cristianesimo che dialoga con i dotti, prima ancora che il pontefice romano che parla ex cathedra.
Io credo che un uomo colto come il papa, cui non sono ignoti i risultati della ricerca storica, non possa onestamente credere alle storie bibliche, ma sappia benissimo che sono invenzioni la Genesi, le storie dei patriarchi, l'Esodo, ecc. Più ancora: costruzione mitica la storia della nascita di Gesù, il concepimento verginale, così come leggendario buona parte del racconto evangelico, ivi compresa  – forse – la stessa resurrezione. Ma il dramma non è solo in questo, sta nel fatto che il papa conosce bene la profondità spirituale del cristianesimo, la fede non come credenza in uno o più fatti storici, ma come esperienza dello spirito. E dunque il vero dramma viene dalla difficoltà di far comprendere che la verità del cristianesimo sussiste intatta - anzi, viene davvero alla luce - anche senza quelle credenze tradizionali, cui è stata affidata per due millenni. Far passare il cristianesimo da una fede ingenua alla conoscenza dello spirito nello spirito, è in realtà un compito che richiede secoli, probabilmente, e forze molto superiori a quelle di un vecchio papa. Per questo le dimissioni di Benedetto XVI fanno venire alla mente l'«ultimo papa» di cui parla davvero profeticamente Nietzsche nel suo Zarathustra: quel vecchio papa ormai Ausser Dienst, collocato a riposo, appunto, perché il suo Dio, «un Dio nascosto, pieno di mistero» è morto. È stato ucciso da quello stesso amore di verità che ha fatto dire a un maestro «'Dio è spirito', compiendo così il più grande passo verso l'incredulità: non è facile infatti sulla terra portare rimedio a una tale parola». Ma Benedetto XVI conosce anche altre parole di quel maestro: «È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi lo spirito. Esso vi condurrà a tutta la verità».
Perciò ha preso congedo con dignità e umiltà commoventi, ma anche e soprattutto con grande serenità, frutto di una fede che non è credenza, ma sapere.”
Io non credo che questa sia un’analisi esatta in quanto, se fosse vero ciò che afferma Vannini il Santo Padre avrebbe già dovuto lasciare nel periodo in cui era Prefetto della congregazione per la Dottrina della Fede.

Affrontiamo adesso un aspetto, solo apparentemente distante dal tema che stiamo trattando: la rappresentazione di Cristo nella pittura: e per fare questo occorre fare un breve excursus storico sulla storia dell’arte occidentale, dalle sinopie di Pisanello fino ai giorni nostri tralasciando cioè, tutto il periodo precedente dove, salvo rari casi, come nell’arte Copta, negli affreschi della grotte in Cappadocia, la rappresentazione di Gesù erano allegoriche o simboliche  come il pesce (ichthys  in greco è l’acronimo di Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) o il Buon Pastore, o nel periodo del distacco della tradizione Cristiana da quella Ebraica dove Gesù veniva raffigurato o come giovane imberbe o barbuto.
Se in Cimabue, ed in Simone Martini c’era ancora la rappresentazione di un Cristo Pantocratore di derivazione bizantina, in Giotto già apparivano nei volti l’espressione dei sentimenti: così nel Rinascimento Cristo sulla Croce assumeva una dimensione più realistica e più umana seppur nelle diverse declinazioni, dalla statica ieraticità in Raffaello o Antonello da Messina, alla teatralità di Velàzquez o al pathos di Grunewald.
Così il Cristo sarà rappresentato anche nelle molte “Sacre Famiglie”, “Natività”  insieme a Maria o nei molti dittici o trittici nei vari momenti della sua Vita, Via Crucis o pagine tratte dai Testi Sacri.
Tutto ciò, come lo stesso Sgarbi ha ricordato in un suo recente libro, termina nella seconda metà dell’ “800, quando tutte le varie correnti artistiche si concentrano a rappresentare al meglio la realtà (impressionismo, espressionismo, divisionismo) o il rapporto dell’uomo con essa fino a rielaborarne e scomporne la forma (cubismo), o si cercava di esprimere le pulsioni più profonde dell’uomo, grazie anche alla nascente psicanalisi (secessione viennese).
Poi agli inizi del Ventesimo secolo in tutte le avanguardie, almeno in quelle occidentali (futurismo, vorticismo, action painting, arte concettuale, arte povera, ecc.) si dissolve, salvo in poche eccezioni (come in alcuni esponenti della “Scuola Romana”,nella “Transavanguardia”, nel “Realismo Sovietico” in Guttuso, nella poetica yiddish di Chagall o in qualche artista d’oltreoceano come Hopper, Lichtenstein o Andy Warrol), la stessa rappresentazione dell’uomo: Così Depero, Boccioni, Carrà, Burri, Fontana, Manzoni, Vedova,  da noi, Pollock, Ernst, Malevic, Klee, Haring, Basquiat o nella ricerca sinestetica di Kandinsky nel resto del mondo, tanto per citarne qualcuno, cercarono nuove strade: è più importante sondare nuove dimensioni dello spazio e della materia che occuparsi dell’uomo e di Dio: in alcuni casi, come in Dalì o in Ontani, sono gli stessi artisti a diventare opere d’arte ed in Manzoni addirittura sono gli escrementi ad assurgere a valenza estetica.    
Così in tutto il ‘900 “Il Sacro” riappare nella tragicità di “Guernica” o più recentemente nelle molteplici provocazioni di Cattelan di Kendell Geers nel suo “Crocifisso” o nel teatro blasfemo di Castellucci, censurato in Italia.
Se questo discorso può apparire fuori luogo ricordiamoci che, sin dal Medioevo l’alfabetizzazione religiosa è avvenuta soprattutto mediante la rappresentazione del “Sacro” fatta dagli artisti e nel culto delle Reliquie:ed ancora oggi in molti luoghi della nostra penisola molti riti religiosi si rifanno a queste tradizioni.     

Per tornare a questioni più propriamente Teologiche mi piace ricordare due eminenti figure del Cattolicesimo: quella di  Antonio Rosmini (beatificato solo nel 2007) soprattutto quello profetico  delle “5 piaghe della Santa Chiesa”, ricordato spesso dallo stesso Ratzinge quando era ancora Cardinale e quella di Carlo Maria Martini scomparso lo scorso agosto: già Arcivescovo della Diocesi di Milano e fine biblista, è tornato in Italia solo nel 2008, dopo un soggiorno in Terra-Santa dove ha potuto elaborare al meglio la sua idea di Chiesa.
Martini cercò sempre un vero dialogo con le altre fedi, senza mai cadere in derive sincretiste ed auspicava una Chiesa meno dottrinale e più apologetica che sapesse meglio rispondere alle esigenze della contemporaneità.
Auguriamoci che il futuro Pontefice, indipendentemente dalla sua provenienza geografica, sappia rispondere a queste sfide.

1 commento:

maria ha detto...

Sappiamo precisamente o quasi, a seconda appunto di quanto vogliamo essere o meno credenti e pieni di fede, chi elegge il Papa.
Ma chi elegge tutti questi personaggi citando i loro rispettivi libri, che siano ultimi o meno, recenti o meno recenti, a nuovi intellettuali?